Auschwitz: la memoria rende liberi

Prendo in prestito dal libro di Enrico Mentana e Liliana Segre il titolo di questo pensiero. Poco si può ancora scrivere che non sia ancora stato scritto: prima ci ha pensato la cronaca, poi la storia, poi la memoria. Il tempo passa e i fatti ci raccontano nuove pagine e nuove guerre e nuove crisi. E nuove memorie, ancora. C’è solo un modo per capire fino in fondo, per noi generazioni fortunate che non abbiamo vissuto gli orrori ai quali sono stati costretti i nostri nonni, cosa può essere stato. Cosa può aver significato anche quel 27 gennaio del 1945, quando l’Armata Rossa varcò i cancelli di Auschwitz liberando i superstiti. L’unico modo è andarci.

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Nessun documento, nessun film, nessun libro e nemmeno nessuno sguardo o voce possono, seppure crudi e terribili e densi di pathos, raccontare meglio dell’esperienza. E pensare che ero una di quelle bambine ipersensibili, nipote di partigiani e allieva di una grande insegnante alle elementari (la maestra Grazia Toti), che aveva sempre sentito raccontare tante storie orribili e che aveva sempre studiato con attenzione e letto e anche scritto poesie sugli orrori della guerra. Eppure niente come quel viaggio del gennaio 2003 mi avrebbe fatto capire davvero.

A gennaio in Polonia fa parecchio freddo. E c’è la neve alta, il cielo plumbeo che pare minacciare sempre pioggia e invece casomai continua a nevicare. Sembra un muro. Fermo, carico, i corvi neri che passano, punteggiando di movimento di tanto in tanto un’atmosfera pesante. Ma anche il loro volo si fa peso e rende inevitabile il pensiero a ciò che è successo oltre settant’anni fa.

 

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Sono andata ad Auschwitz da grande, avevo 26 anni e Gianni Tiberi, allora capo servizio de La Nazione mi mandò per fare la cronaca del viaggio sul treno della memoria organizzato dalla Regione Toscana.

Quattro giorni tra Cracovia, il ghetto e i campi di sterminio, un viaggio fatto in treno insieme ai ragazzi delle scuole superiori e in treno si ha maggiore percezione del tempo e delle difficoltà affrontate dai deportati che arrivavano su quei binari fino a Birkenau. Il resto non merita tanto un racconto di cronaca – ormai conosciuto da tutto il mondo e sviscerato in ogni modo – quanto di emotività. Varcare il cancello del campo di Auschwitz significa entrare in una dimensione che comunque ci è estranea, forse la stessa cosa che hanno visto le milioni di persone che poi lì hanno trovato la morte. Un quartiere di ‘villette a schiera’, per semplificare la descrizione. Un luogo apparentemente accogliente. La scritta sul cancello sembra quasi invitare a compiere il proprio dovere con entusiasmo.

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Poi l’ingresso in quello che ormai da anni è il museo della memoria e che ti ospita, in tutta la sua crudeltà, per proiettarti dritto nell’orrore. Alzi la mano chi non ha mai visto foto o documentari con le immagini dei capelli, delle valigie, delle scarpe e degli occhiali. Considerando la grandezza di quelle teche si ha l’idea del numero di persone. Ma sono i corridoi, le foto di ogni deportato che veniva registrato e che oggi ti guarda con la stessa paura da quelle immagini, a darti un cazzotto nello stomaco. Attraversi quei corridoi ed è come sentire il respiro ansioso di tutta quella gente che ti chiede, sottovoce, di guardare con attenzione, di capire, di non permettere più tanto orrore. Non so se avete mai provato quella pesantezza, quella sensazione di essere osservato da qualcuno che però non c’è. Ecco, lì si prova. E non è successo solo a me.

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Il resto, un susseguirsi di celle, camerate dove si dormiva accalcati sulla pietra (nonostante la temperatura sotto zero dei lunghi inverni), forni, residui delle bombole di ziklon B (il gas letale) utilizzate dai tedeschi, le rovine delle camere a gas che le truppe naziste fecero saltare prima dell’arrivo dell’Armata rossa, per non lasciare tracce del loro progetto di sterminio. Poi il muro dove avvenivano le fucilazioni, il campo di lavoro, l’erba ricresciuta sul filo spinato, fino alla stanza dove Josef Mengele eseguiva esperimenti sui bambini.  Sapete cosa è successo?

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Che il dolore che si respirava dentro a quella stanza mi ha fatto scoppiare a piangere e sono stata costretta ad uscire. Non ho retto a tanta sofferenza. Credetemi, impossibile non percepirla. Più delle valigie, più dei capelli e degli occhiali, ha potuto il nulla, una stanza ormai quasi vuota, qualche foto a ricordare cosa avveniva lì ma nulla di più. Eppure quei bambini forse sono ancora lì con il loro pianto rotto, a chiamare le loro mamme, a chiedere aiuto, a morire per la follia e per la violenza. Ci sono, e si fanno sentire.

WAS02:GERMANY-DEUTSCHE-AUSCHWITZ,4FEB99 - FILE PHOTO 27JAN45 - Survivors of Auschwitz are shown during the first hours of the concentration camp's liberation by soldiers of the Soviet army, January 27, 1945. Manfred Pohl, a Deutsche Bank historian, said February 4 that Germany's largest bank, Deutsche Bank AG, lent funds to firms involved in the building of the World War Two camp. An estimated 1.5 million people were killed in the camp during World War Two. (B&W ONLY, NO SALES, NO ARCHIVES, ONLINES OUT, ONE TIME EDITORIAL USE WITHIN 90 DAYS OF TRANSMISSION) hb/Photo by B. Fishman-Corbis-Bettmann REUTERS

(Photo by B. Fishman-Corbis-Bettmann REUTERS)

Oggi, a distanza di 13 anni da quel viaggio, mi porto dentro ancora quella sofferenza che nessun libro e nessun documentario,  nessun racconto mi aveva dato. Oggi più che mai vorrei che non si identificasse nell’Olocausto solo lo sterminio degli ebrei ma l’orrore di ogni guerra. La memoria ci rende liberi, come la conoscenza. Si deve conoscere, si deve sapere. Andate fino ad Auschwitz. Solo così, forse non si ripeteranno gli stessi orrori ed errori. Perché i milioni di ebrei, i bambini, oggi sono altre milioni di persone e di bambini che subiscono la guerra, sono occhi che hanno la stessa paura o sguardi con la stessa follia. Credo davvero che la memoria ci renda liberi, non solo per gli ebrei ma anche per i curdi, i siriani, i turchi, gli italiani, i russi, gli americani, i francesi, gli afghani, i palestinesi, per tutti quelli che ieri hanno subito la guerra, per chi la vive oggi. Che sia il nazismo, il comunismo, la deviazione della shari’a, la memoria serva a renderci liberi da tutto questo. Che la conoscenza delle radici ci aiuti a rispettarle e a custodirle, siano le nostre opere d’arte che non vanno ‘vestite’ perché possono infastidire altre culture, siano le libertà raggiunte col sangue di chi è c’è stato prima di noi. E un grazie enorme va a quanti ci aiutano a non dimenticare: i nonni, i genitori, una maestra alle elementari.

 

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Katiuscia Vaselli