Fascismo e Carta del Lavoro. Ma la crisi attuale?

Ho partecipato alla recente presentazione, nella sala della Suvera dei Rozzi, del  libro sul ‘Fascismo: stato sociale o dittatura?’ curato da Marina Mussolini e dai senesi Andrea Piazzesi e Edoardo Fantini per Cantagalli. Gli autori hanno voluto sottolineare il trascurato (a loro avviso) valore rivoluzionario della Carta del Lavoro fascista e della legislazione sociale del regime con un duplice fine: negare la natura dittatoriale del fascismo e poter parlare, anche, di uno Stato progressista, che dava lavoro a tutti, ben più avanzato del nostro sfilacciato e inconcludente di fronte ai bisogni sociali.

La Carta del Lavoro quindi è stata per gli autori la chiave di volta per una difesa del regime, ma purtroppo un giudizio storico non può prescindere dal ‘resto’, il tanto, anzi il tantissimo d’altro che il fascismo ha voluto dire, anche prima della guerra e delle leggi razziali.

Vero però che nella legislazione del fascismo ci furono, dal punto di vista tecnico, punte di eccellenza grazie a un ceto di giuristi molto raffinati che con esso collaborarono molto da vicino come è vero che le istituzioni pubbliche sociali in gran parte ereditate dalla Repubblica trovarono in quel passato le loro radici. A parte quelle dei perseguitati politici, le famiglie si sentirono assistite dallo Stato, a differenza di quanto avveniva sotto i ‘liberali’.

Ma questo ammesso, a negare il carattere tirannico del regime, la sua repressione anche durissima e illiberale dell’opposizione politica, la sua eversione dell’ordinamento liberale bene o male assicurato dallo Statuto albertino, ne corre. Molto, troppo.

Giusto invece riconoscere la novità della Carta del lavoro cui io stesso,  unico tra gli storici del diritto universitari, ho dato spazio  nel mio manuale di storia del diritto (Giappichelli) sul quale si sono preparati (e si preparano) centinaia e centinaia di studenti di Giurisprudenza. Addirittura la ho riprodotta integralmente. Era in effetti un elemento nuovo, molto interessante dal punto di vista storico, con la dottrina corporativa d’ispirazione medievale che tentava una ‘terza via’ tra liberismo e comunismo fondandosi sull’interclassismo predicato dalla Chiesa. Con la quale, non a caso, il fascismo trovò nel 1929 quell’accordo storico che allargò enormemente il consenso al governo.

Il sistema poneva l’economia sotto il controllo statale nel ‘superiore interesse della Nazione’ inaugurando una pratica che rimediò alla crisi conseguente al ’29 (IRI ecc.), ma che inaugurò anche una tradizione statalista e di capitalismo (spesso) assistito che avrebbe segnato la futura storia italiana (e il suo presente).

Non si dimentichi che molti brillanti esponenti politici della futura Repubblica (anche comunisti, che infatti amarono poco il libro in argomento di Zangrandi) si formarono in questo clima culturale (GUF) e in questa dimensione ‘sociale’ che soddisfaceva in vario modo la dottrina sociale della Chiesa ma anche del comunismo statalistico. La Costituzione del ’48, con tutti i suoi pregi, ebbe comunque un forte retroterra in quella cultura: altro dato difficilmente rinnegabile.

Purtroppo, la completa discontinuità che gli autori danno per certa tra il ‘contesto’ fascista e quello repubblicano per esaltare il primo è tutt’altro che pacifica. Il primato della legislazione sul piano formale cui non corrisponde una situazione reale conforme ai suoi propositi è divenuto un elemento (e un problema) permanente, strutturale, della nostra vita istituzionale. Chiacchiere, formalismi e retorica populista da tempo prevalgono nella nostra scena pubblica, con i risultati che tutti possiamo constatare.

La serata ai Rozzi fa riflettere sulla nostra permanente difficoltà, purtroppo, a distaccarci da quel passato in modo sereno ed equilibrato; problema che non è solo della destra come si è potuto verificare recentemente quando si è discusso del libro di Nicola Marini su Walter Cimino oppure di Floriana Colao sul processo Chiurco.

Miti e riti prevalgono anche, ancora oggi, in larghe aree della sinistra. E’ come se fossimo sempre nel clima rovente del Dopoguerra, ognuno sempre prigioniero dei propri schemi e delle sue rigidità. Il passato va studiato eccome, ma non per continuarlo, finendo per esserne succubi, ma per poterlo ‘vagliare’ in senso materiale, nel bene e nel male, in ciò che vi si può riconoscere di recuperabile e in ciò che va buttato nel cestino come un ferro vecchio: non dobbiamo far così anche noi, con il nostro vissuto per sopravvivere e poter guardare positivamente al futuro?

Che si continui così, invece, tra contrapposizioni incomunicabili, tra condanne sempre attuali, è contrassegno sicuro della crisi del Paese. E un ostacolo pesante alla sua ‘ripartenza’.

E’ questa la ‘cultura’ di cui si deve parlare perché profondamente radicata, difficile da modificare, ma è compito ineludibile per ogni persona di buon senso (e non c’è bisogno di essere storici per esserlo, anzi!). Così non sarà mai possibile la costruzione di una coscienza nazionale unitaria e quindi anche di una identità forte. Ma si parla per lo più di ‘beni culturali’, che sono un’altra cosa, tutt’altra cosa: una bazzecola al confronto…

Mario Ascheri