Le occasioni mancate: convento del Carmine

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Nel 2001, durante dei lavori di restauro eseguiti in emergenza presso il convento del Carmine, in Pian dei Mantellini, furono rinvenuti strati di ceramiche utilizzate in riempimento delle volte.

Venne avviata, conseguentemente un’indagine di scavo, in accordo con la Soprintendenza, da parte dei due docenti di Archeologia Medievale (Riccardo Francovich e Marco Valenti) dell’Università di Siena, il cui lavoro di recupero sfociò in una splendida mostra (C’era una Volta il titolo) allestita al Santa Maria della Scala fra il giugno ed il settembre dell’anno successivo con grande successo di pubblico. Successivamente il materiale raccolto è finito in un magazzino ove giace anche oggi invece di diventare elemento essenziale museale fruibile continuamente dai Senesi e dal grande pubblico. La particolarità di questo ritrovamento è che ne conseguì una serie di indagini archeobotaniche ed archeozoologiche e, da esse, ne derivarono una serie di studi relativi al funzionamento di un cantiere medievale ricostruendone i ritmi e le abitudini alimentari, nonché una serie di informazioni che delineavano nitidamente una zona della città e la vita che la circondava. I frati Carmelitani o “mantellini”, così detti per la mantella bicolore che portavano sopra al saio, già vengono segnalati nella zona fino dal 1262 nel Costituto. I fabbricati interessati dal convento vengono costruiti e rimaneggiati in vari secoli, la chiesa e le parti conventuali (chiostri, dormitori ed una platea) hanno origine nella prima metà del trecento e fino al cinquecento continuano ad essere sottoposti a lavori. Posteriore ai fabbricati vi era un vasto orto ed un pozzo detto della Diana. La tecnica del riempimento non era avulsa dalle tecniche costruttive dell’epoca: per non appesantire le strutture anche a Montalcino presso il Palazzo Pubblico ed a Assisi si nota la stessa tecnica. Venivano utilizzati vasi in ceramica, seconde scelte e scarti (non vendibili dunque) voltati con la bocca in basso e poi assestati con terra e materiali di scarto. Insomma una resistente camera d’aria. Il riempimento della volta era costituito da oltre 360 esemplari interi su un totale di 868 forme ceramiche riconosciute, resti archeobotanici e materiali di vario genere (tubi fittili, carta, cuoio, ciotole in legno, ossa animali). La porzione di volta ancora coperta dalla pavimentazione moderna, e non indagata perché i lavori di restauro non lo prevedevano, lasciò ipotizzare la presenza ancora in posto di 2000-2500 pezzi di ceramica.

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Nell’area del Pian dei Mantellini, fra la fine del duecento e gli inizi del trecento fuori dal ciclo murario, vi erano numerose fornaci per la manifattura della ceramica. Vi erano poste a causa dell’utilizzo del fuoco, ma ve ne erano numerose anche in Castelvecchio, dove probabilmente si trovavano anche delle vetrerie. Fra i materiali di scarto infatti fu ritrovato anche del vetro colorato, segno della presenza di vetrate, fondi di boccali e bicchieri. Facile immaginare un grande movimento di carri che, dalle varie fabbriche di ceramica, si addensavano intorno al cantiere per portare il vasellame richiesto e i muratori che, in equilibrio fra ponteggi e carrucole, sistemavano ordinatamente i vasi. Come spesso accadeva nei luoghi di lavoro, vi erano gli addetti alla cucina e questi si occupavano di preparare i pasti che erano a base di grano, che, in questo periodo, inizia a sostituire decisamente le granaglie (avena, farro e orzo) e che fa sospettare che i declivi che delineavano le colline circostanti fossero coltivate in parte con questi cereali. Anche i resti di animali trovati testimoniano la presenza di carni nella dieta, quasi sempre pecore e capre di ogni età, ma anche suini e bovini, quest’ultimi sicuramente ammessi alla macellazione in età avanzata da non servire più al lavoro. Gli animali venivano sicuramente portati già macellati e suddivisi in mezzene al cantiere, poiché erano sempre senza testa. I lavori estivi vengono invece sottolineati dalla presenza di noccioli e semi di frutta che probabilmente provenivano dalla coltivazione dell’orto. Alcune ciotole in castagno fanno pensare ad una frequentazione del bosco ed un utilizzo del legname oltre all’uso delle erbe medicinali.

Le castagne stesse, visto un reperto di tegame forato ritrovato, erano sicuramente un elemento importante della dieta. Ecco, non potremmo provare ad immaginare un percorso museale intero con l’ausilio della tecnologia odierna che riesca a far vedere questo affiancando il materiale ritrovato ? Non potrebbe questo materiale far parte di un percorso antropologico ed artistico di grande interesse pubblico? Gli spazi espositivi non credo che manchino.

Luca Virgili