Il XVI secolo è segnato, a Siena, da una profonda voglia di cultura, di teatro, di gioco e – come si direbbe oggi – di “fare spettacolo” in tutte le sue forme. Nella sua prima metà, infatti, prima della “guerra di Siena” che sconvolgerà gli assetti politici, sociali e culturali della città, questo secolo ha visto sorgere e fiorire decine di accademie in un ambiente vario e culturalmente vivace, ricco di occasioni e stimoli. Congreghe e accademie, ma anche semplici compagnie o brigate, a volte sotto l’egida di un nobile o ricco protettore, ricreavano – in ambito repubblicano – un ambiente letterario colto o semplicemente ambizioso, proprio in sostituzione di quello delle corti di altre città rinascimentali italiane e sicuramente molto meno assoggettato a condizionamenti cortigiani.
Quello che stupisce e le cui ragioni restano ancora in parte un mistero, è che la voglia di cultura sorgeva anche e soprattutto in quella parte di popolazione lontana dallo Studio (l’Università), dalla Sapienza e dalla goliardia accademica dei rampolli delle nobili e facoltose famiglie senesi – raccolta attorno all’Accademia degli Intronati – fatta di umili artigiani: maniscalchi, ottonai, pannilini e pannilani, cartai, tintori, che passavano la maggior parte del loro tempo a bottega, rispettavano le feste comandate, ma, per divertirsi, sapevano leggere Dante, Petrarca, Sannazzaro, disquisire sulle “questioni” storiche e politiche e comporre commedie, poemi, indovinelli in rima e sonetti “nelle consonanze” dei loro autori preferiti.
Alcuni di loro, ormai noti come “i dodici Paladini”, capeggiati dall’entusiasmo travolgente del maniscalco Angelo Cenni, detto il Risoluto, e dalla pacata cultura del libraio Anton Maria di Francesco, detto lo Stecchito, si riunirono un giorno, e sappiamo che fu il 1 ottobre 1531, e decisero di fondare una Congrega. Si dettero dei soprannomi e un’impresa, si dotarono di un serioso statuto (I Capitoli) e di uno scopo: aiutarsi l’un l’altro “come fratelli” ad esprimere la loro voglia di scrivere, di fare spettacolo, di giocare con le rime (dato che per statuto si poteva solo scrivere in versi nella Congrega per differenziarsi dai “prosatori” Intronati!) e, ciò facendo, di elevarsi culturalmente.
“Trovandoci in fra noi come fratelli /da otto o dieci tutti buon compagni/sol per industriar nostri cervelli, /non per attribuir robbe o guadagni;/e per mostrar ch’ancor ne’ povarelli/regna virtù; […]”: fu facile per loro darsi proprio il nome che rifletteva esattamente ciò che erano e non volevano più essere, “Rozzi”, scegliere come emblema una umile suvera secca con un solo pollone verde, segno di rinascita, ma anche mettere subito in chiaro che diventando “Rozzi” si sarebbero scrollati di dosso l’atavica rozzezza di modi e di pensiero. “Chi qui soggiorna, acquista quel che perde”, acquista dunque il valore della cultura e perde l’ignoranza e la grettezza del basso ceto sociale delle origini contadine pur senza rinnegarlo completamente. Queste origini ritornano infatti nella figura del Villano, protagonista e anti-eroe delle più belle commedie di questi autori inurbati, ormai non più o non soltanto oggetto di satira, ma soprattutto portavoce della massa dei miseri, sopraffatti dalle invasioni degli odiati spagnoli di Carlo V, dei mezzadri sfruttati da padroni arroganti, schiacciati dalle carestie e affamati dalla scarsità dei raccolti e dalle pesanti decime.
Era un sogno, quello dei Paladini, il seme di una voglia di riscatto sociale e culturale che darà i suoi frutti più belli, “I Frutti della Suvera”, appunto, come ricorda il titolo di una raccolta di Sonetti e indovinelli, nei cinque grandi commediografi Rozzi: Stecchito, Risoluto, Falotico, Strafalcione e Fumoso che renderanno immortale il nome della Congrega “e noto fino all’antipode genti,/ e spander l’ale e i trionfali onori/specchio de illustri e magni almi signori.”
Cominciò dunque una proficua stagione fatta di giochi letterari, letture delle “Questioni”, composizione di sonetti e capitoli in terza rima e soprattutto di straordinarie commedie, pubblicate in librettini di piccolo formato, con carta leggera e di poco valore dai cartai dell’epoca (le preziose “cinquecentine” vero tesoro della nostra Biblioteca Comunale degli Intronati, copie delle quali sono conservate nelle biblioteche di tutto il mondo). Il successo fu grandissimo, le copie delle commedie andarono a ruba, le ristampe furono numerose, i senesi amavano questi autori attori, ridevano delle loro buffonate e accorrevano a vederli recitare nelle strade, nelle piazze, in locali privati e nelle varie occasioni pubbliche nel solco di un’antica tradizione di festa. Siena era da sempre la città dei giochi: durante i Carnevali, per la corsa dei Pali, le Bufalate o le Cacce, e ancor più nelle occasioni importanti o solenni come la visita di Carlo V (1536) e l’arrivo di Cosimo I (1557), si organizzavano imponenti feste rinascimentali, con carri, cortei e grandi apparati, sfilate di contrade in ricchissimi costumi, balli collettivi, giochi – le “Pugna” o “il gioco del pallone” in Piazza del Campo – e rappresentazioni di vario genere che vedevano mobilitate tutte le classi sociali, le congreghe, le accademie e durante le quali i nostri comici artigiani facevano la loro parte mettendo in scena a Siena – e solo a Siena, per statuto – le loro opere.
Mancava però ai Rozzi ancora un Teatro, un vero Teatro. E dovranno passare secoli prima di riuscire ad averlo, nel frattempo, erano diventati famosissimi, nonostante la censura della controriforma e le terribili vicende storiche senesi ed erano entrati per sempre nella storia e – forse – nella leggenda della nostra città.
Barbara Bazzotti