Palio e animalisti. Riflessioni, inquietudini, scenari. E una proposta

Siamo sinceri: la polemica ormai sta dando un senso di stucchevolezza insopportabile. E’ una polemica che si trascina da decenni e si riavvoltola sempre intorno alle stesse idee, agli stessi concetti e preconcetti, agli stessi insulti cretini, alle stesse minacce, alle stesse inconciliabilità. Una polemica, non a caso, che spesso va in letargo in inverno come gli orsi, per poi riscoppiare, in tutto il suo vigore, con la bella stagione.

Detto questo, far finta che non stia succedendo niente vuol dire mettere la testa sotto la sabbia. Definire gli animalisti “un non problema” – come è stato fatto – vuol dire retrocedere tutta questa problematica a livello di una chiacchiera da salotto o di una gazzarra di eccentrici. Non è così. Perché il problema non sono gli animalisti (anche) ma soprattutto ciò che richiedono. Cioè l’abolizione del Palio. Si può anche far finta che questa sia una sciocchezza, ma si finge altrettanto di ignorare che il rigetto di manifestazioni con animali è un atteggiamento mentale condiviso da un bel po’ di Europei. Non entriamo nella recente messa al bando della corrida, da parte dei Catalani, che ci sa tanto di mossa politica a effetto per estremizzare il contenzioso con il resto della Spagna, ma ci limitiamo a recepire un atteggiamento diffuso di maggiore sensibilità verso la dignità degli animali. Il che è positivo, ma il problema lo crea perché il portato ultimo di questa sensibilità racchiude naturalmente in sé la messa in discussione di ogni manifestazione con animali. Anche quella più sicura. Anche il Palio. Altro che non problema. Questo è IL problema.

Però, guai a prendere scorciatoie. Esorcizzare gli animalisti in blocco è un errore madornale. Ce ne sono di oltranzisti viscerali che si meritano poco più dello sberleffo, ma ce ne sono di intelligenti che cercano di coniugare la sacrosanta dignità dell’animale con manifestazioni – come il Palio – che non sono sagre paesane,  ma sono storia. E oltretutto sarebbe ingeneroso non ricordare che è stato anche per prendere sul serio certe considerazioni proprio degli animalisti che il Palio ha sviluppato strumenti e tecniche di messa in sicurezza, che sono riconosciutamente le più avanzate.

E nemmeno  è giusto accedere a generalizzazioni ottuse e in malafede del tipo: vi occupate degli animali ma non degli esseri umani. Può darsi che alcuni animalisti, in un cinico gioco a cercare l’immagine, lo facciano realmente. Quando si leggono sui vari post nei social che si augura  la morte a fantini e a contradaioli pur che non siano coinvolti i cavalli, la mente va con raccapriccio all’episodio (vero! non fiabesco) dei due soldati delle SS che in un campo di concentramento furono duramente puniti per essersi macchiati di maltrattamenti. Nei confronti di due cani. Poi il fatto che torturassero e uccidessero migliaia di esseri umani colpevoli di essere oppositori, minoranze, ebrei, omosessuali, questo era assolutamente normale. Ma non tutto il mondo degli animalisti è riassumibile in questi rigurgiti criptonazisti. Chi risponde che cura degli animali e cura degli uomini non sono in alternativa ha pienamente ragione. E, personalmente, aggiungiamo (e non per provocazione, ma per convinzione) che non c’è gerarchia fra queste due istanze: cura della dignità degli uomini e cura della dignità degli animali sono imperativi paritari in una società che si definisca civile.

Certo, un’innegabile strumentalità offende e amareggia. Prendersela con la corsa più tutelata del mondo è un po’ da maramaldi. Ci sono set davvero tragici per gli animali, e questi non sono la Piazza del Campo e le stalle delle Contrade. Feste folkloristiche di crudeltà inaudita, dove i cavalli (o altri animali: si tengono le lotte clandestine fra galli e corse clandestine di cani. Lo sappiamo questo, no?) muoiono; corse clandestine in cui la morte di un cavallo è un evento del tutto naturale e nessuno si sogna di dir niente. Certo, ci rendiamo conto: alcuni di questi set hanno robusti backstage di mafia o di camorra, comunque di malavita. E andare a manifestare di persona nei confronti di questi soggetti è un po’ più difficile che minacciare una manifestazione a Siena. Ma ripetiamo: lo si capisce. Ci vorrebbe un coraggio che rasenta l’incoscienza e, come diceva Manzoni, il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare. Anzi, siamo lieti che nessuno quel coraggio o quell’incoscienza ce l’abbia. Con i soggetti che stanno dietro alle corse clandestine sugli asfalti di certe città del Sud c’è da farsi male, e ci auguriamo proprio che nessuno si faccia male. Nemmeno chi ha un atteggiamento oltranzista nei confronti del Palio, di Siena e dei Senesi. E non esistono solo questi scenari estremi e delinquenziali. Ci sono aspetti di crudeltà anche in manifestazioni ufficiali e legali: i levrieri, quando vengono ritirati dalla competizione, o trovano chi li adotta o vengono eliminati. Lo sappiamo questo, o no? Nemmeno tutto quello che si muove intorno agli ippodromi è, da questo punto di vista, sempre trasparente e, talvolta, ci sono zone d’ombra che non lasciano tranquilli nemmeno in questo legalissimo  e controllato settore. L’elenco potrebbe continuare, ma prenderebbe l’aspetto di un diversivo per parlare d’altro, o del tentativo di affogare il problema animalisti/Palio in un indistinto guazzabuglio. Non è tema da buttare in caciara, ma come non pensare che, in parte, si attacca il Palio proprio perché è la corsa più famosa del mondo e che  chiunque lo attacchi un quarto d’ora di notorietà lo guadagna?

E, proprio a questo proposito, per piacere, facciamola finita una buona volta anche con l’altrettanto stucchevole polemica sulle colpe della televisione. Se, tanti decenni fa, sul Palio non c’era questa occhiuta attenzione mediatica era anche perché del Palio si percepivano solo alcuni aspetti sommari e pittoreschi, veicolati da racconti o superficiali articoli di giornale. Quando arrivò la radio, non cambiò niente rispetto all’epoca dell’imperialismo della carta stampata. Poi è arrivata la televisione (una certa televisione) ed è  vero:  è stata lei ad accendere sul Palio l’attenzione di tutti, anche di chi il Palio lo detesta, facendone uno spettacolo di dimensione mondiale. Allora, cacciamo la televisione e tutto si risolve? Ma per piacere, non diciamo stupidaggini. La televisione solo apparentemente entra nella società chiedendo permesso. In realtà c’entra perché oggi una società (una società di modello occidentale, vogliamo dire) non ne può fare a meno, e senza il coté spettacolarizzato si sente incompleta e senza visibilità. Non c’è bisogno di fare i sociologi della domenica per sapere queste cose, basta leggere due o tre considerazioni sul rapporto fra società e immagine, ma non opere complicate, eh! Bastano alcune di quelle cose che legge uno studente del primo anno di Scienze della Comunicazione.  Tutto questo è giusto? E’ sbagliato? Né giusto, né sbagliato: semplicemente, ormai è sedimentato così.

E quand’anche una superciliosa e savonaroliana città bandisse la televisione, pensiamo che avrebbe distratto l’iper-attenzione dal Palio? Oggi? In epoca di massmediaticità diffusa? Di social network e di accesso alle informazioni senza filtro né protocollo? In un’epoca in cui basta uno smartphone per creare la notizia? Via…

Il punto, allora, è: ha diritto il Palio a pretendere di sopravvivere coesistendo con la parte condivisibile delle sensibilità animaliste?  Certo: il Palio è un evento delicato e impegnativo, indubbiamente dal sapore ancestrale. Ha un senso perpetuare un rito ancestrale nel XXI secolo? Crediamo proprio di sì, perché ogni rito ancestrale è un pezzo di memoria che si mantiene e di costruzione di autoidentificazione. Ma, facciamo noi stessi attenzione: non è saggio dire che, per giustificare il Palio, basta la tradizione. La tradizione è sempre inventata (una novità che ha avuto successo, ha detto una volta qualcuno) e non ha alcuno statuto di santificazione di per sé. La riflessione che va fatta è più sottile: deve incentrarsi sulla constatazione che questa tradizione, inventata secoli fa e condivisa da tutta l’Italia (il palio si faceva dappertutto), ha dimostrato di aver resistito in una comunità e di aver costruito un rito di metafora guerresca sotto forma di giostra che sublima tensioni e conflitti veri. Deve articolarsi sulla consapevolezza che essa ha costruito il punto di arrivo per la memoria collettiva di una popolazione, e lo ha fatto – nello specifico della corsa – creando (con buona pace degli animalisti) un’empatia totale dell’uomo con il cavallo nel vivere il rito, perché il Palio non è una manifestazione dove il cavallo è la vittima predestinata: è un rito in cui l’animale è, ancestralmente, coprotagonista insieme all’uomo.

Quando si constata che è avvenuto tutto questo, allora ci chiediamo se non sarebbe il caso di argomentare con minore vigoria semplificatoria e ci chiediamo se debba essere considerato come marginale il fatto che  il Palio ha subito e, continuamente, subisce aggiustamenti che permettano all’uno e l’altro dei protagonisti di non avere infortuni. Il che, non c’è dubbio, non sempre avviene. Ma è assolutamente l’ultima cosa che deve accadere. E’ questo il punto su cui si può e si deve lavorare per trovare il momento di mediazione fra due posizioni che, se lasciate alla loro radicalità, sono inconciliabili: “aboliamo il Palio” versus “non ce ne frega niente, si fa quel che ci pare”. E seguendo l’una o l’altra, quale che sia, si fa poca strada, se non quella dell’insulto. Che anch’essa porta da poche parti.

Tutto quel che abbiamo detto finora induce, pertanto, a chiederci se “la sicurezza” del rito stesso non debba diventare IL soggetto più degno di attenzione.

E il Palio, in quanto a messa in sicurezza non scherza. Chi ne conosce la storia sa benissimo che il cammino di auto-domesticazione di questo rito è stato continuo e ha assunto velocità vertiginose negli ultimi decenni.  Al punto da lasciare, talvolta, perfino qualche sommessa perplessità:  ormai stiamo diventando più realisti del re e può anche essere giusto, purché la cifra del vivere il Palio non divenga quella del ricorrente e un po’ paranoico “sennò ci fanno smettere di farlo”. Minaccia da non sottovalutare, ma nemmeno da far diventare un elemento terrorizzante-paralizzante o un pretesto per fare del Palio una edulcorata e batuffolosa performance in costume. Giusto non trasformare gli affrontamenti in risse da stadio, ok. Mettiamo pure in sicurezza la pista con steccati particolari, camicie, protezioni e quant’altro, ok. Ma non passiamo dalla saggia prevenzione alla paranoia, perché, altrimenti, vieta e proibisci, nega e diffida, andremo a fare un Palio di plastica (magari con il Corteo Storico in Piazza del Campo e la corsa, il giorno dopo, a Mociano o a Monticiano). E allora, fra un Palio di plastica e smettere di fare  il Palio, c’è da chiederci cosa preferire.

Concludendo e riassumendo: è necessario partire dalla constatazione che esistono due posizioni le cui estremità sono inconciliabili. Ma è tagliando le estremità che si risolvono le situazioni; cercando il punto di possibile mediazione. E fra gli opposti oltranzismi ci può (avendo la volontà politica di costruire questo “può”) essere l’intelligente incontro fra una città che vuole mantenere il suo rito, ma garantendo la massima sicurezza ai cavalli, e la presa d’atto – da parte di chi ha a cuore giustamente la salute degli animali – della buona volontà della città stessa di andare in questa direzione. Nel mezzo ci possono (ci devono? ci dovrebbero?) essere le istituzioni politiche, nemmeno tanto locali quanto, piuttosto, nazionali capaci (se ne sono capaci) di farsi garanti di questo punto di equilibrio. Non perché le istituzioni nazionali debbano dire “come” fare il Palio (chi scrive considera con molta preoccupata inquietudine l’ingresso della Magistratura ordinaria nelle questioni della corsa. Figuriamoci delle istituzioni), ma perché si sancisca, una volta per tutte, che il Palio è un patrimonio storico, sia locale (della memoria di una città) sia nazionale, in quanto riassunto della memoria delle feste in piazza, delle giostre, dei giochi di affrontamento, di una dimensione culturale italiana, degna di essere preservata nel processo di globalizzazione, centrifugazione e omologazione delle specificità di un popolo, ormai in fase di indistinto annacquamento.

Questa è, probabilmente, davvero la scommessa più alta, perché apre un grande credito di intelligenza e sensibilità verso le istituzioni statali. Eccesso di credito verso la nostra attuale classe dirigente politica nazionale? E’ possibile, ma nella costruzione della civiltà e di un’etica condivisa è come in economia: senza credito non cresce niente. Pura utopia? Può darsi. Ma l’utopia è il punto dell’orizzonte che consente di costruire, su piani alti e ambiziosi, via via il percorso della realtà.

 

Duccio Balestracci

Maura Martellucci