Quando il “sano cazzotto” diventa social

David Taddei invita a rivedere la cultura del “cazzotto” ai tempi della visibilità diffusa grazie agli strumenti social.

Sono uno degli ultimi a poter parlare di Palio, non sono nato sulle lastre e, per ossequio al ruolo ricoperto al Comune di Siena per tanti anni, ho preferito sempre stare fuori dalle tentazioni contradaiole e non prendere i colori di nessuna. Negli anni però mi sono trovato, per professione, a confrontarmi direttamente con la festa senese, ininterrottamente dal 1987 al 2012, prima come cronista locale e poi come addetto stampa, portavoce e capo di gabinetto del comune. Probabilmente era nel mio destino, visto che sono nato il 2 luglio e mia cugina il 16 agosto!

Di cose ne ho viste e seguite molte. Ho vissuto il Palio più come possibile fonte di problemi che come una festa e per me vincere era che tutto filasse liscio, che il rito fosse salvo e si concludesse con un “e vissero tutti felici e contenti”. Da questo punto prospettico più distaccato, pur avendo conosciuto e subìto il fascino di molti grandi uomini di Palio, ho imparato a capire, un po’ per volta, la grandezza della Festa senese, questa specie di essere vivente che ha valicato i secoli e che ogni volta fa esplodere un senso di appartenenza unico, capace di pervadere anche coloro che in questa comunità arrivano dopo o ci passano da turisti.

Nessuna immagine o video sarà mai in grado di rappresentare il palpitare della Piazza e i suoi silenzi, quel respirare insieme che ti fa sentire parte di un individuo collettivo, di qualcosa che ti prende e ti costringe a vivere le sue emozioni, il suo ritmo della vita. Tutte cose che hanno anche un fondamento scientifico, come saprete se siete appassionati di sistemi complessi adattativi e di cose come l’autopoiesi (un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso, si sostiene e riproduce dal proprio interno). Ma, insomma, non è questo l’importante.

In tutti i miei anni in Comune, ho sempre cercato di rappresentare ai colleghi giornalisti delle testate nazionali ed internazionali questo valore unico del Palio e di far loro soprattutto capire una cosa: se la morte di un cavallo, pur considerata evento luttuoso, non mette mai in dubbio in un senese l’esistenza del Palio, mentre tutto il resto del mondo ragiona al contrario, un motivo ci sarà. Ed è troppo semplice risolvere il problema pensando che i senesi sono matti o trogloditi. È perché il Palio è vita e al tempo stesso metafora di vita, è un sistema complesso, capace di auto adattarsi alla contemporaneità, ancora portatore di significati e valori collettivi, qualcosa che va molto al di là della pur preziosa esistenza di un cavallo che sempre si cerca di preservare.

Ai tanti italiani, non solo animalisti, che ad ogni incidente alzavano il telefono per coprire di ingiurie i malcapitati addetti del Comune, chiedevo sempre se per caso fossero vegetariani. Perché se è vero che il cavallo non sceglie di correre il Palio, neanche il pollo chiede di esser messo arrosto per diventare cena. Era un modo un po’ brutale per cercare di far riflettere su quanto i modelli culturali influiscano nella formazione del proprio metro di giudizio. Possiamo tirate il collo a milioni di polli tutti i giorni ma guai se per eventi fortuiti si fa male un cavallo al Palio di Siena. Senza minimamente pensare che, a fronte dell’imponderabile incidente, il Palio permette ad una colonia diffusa di oltre 200 cavalli di vivere abbastanza agiatamente intorno a Siena. Per un senese sono considerazioni semplici, perfino banali. Per chi non è di Siena e segue il Palio distrattamente due volte all’anno, sono pensieri incomprensibili.

Ho vissuto tutta l’epopea degli attacchi al Palio dopo gli incidenti dei primi anni Novanta e tutta la capacità di reagire messa in campo dal Comune. Dal divieto ai purosangue, ai materassoni, i protocolli, i test elisa, Mociano e le corse di addestramento, le previsite e tutto il resto che conoscete bene.

Se vi guardate indietro vi accorgete che il Palio, in venti anni, si è rinnovato in una maniera pazzesca sul fronte della tutela del cavallo. Lo ha fatto non senza strappi e polemiche, anche con qualche passo falso, lo ha fatto perché costretto da un mutato modo di sentire dell’opinione pubblica italiana, ma è stato abbastanza intelligente da farlo. Quando sembrava che la sottosegretaria Martini, anche sotto la spinta della ministra Brambilla, stesse per avviare una legge che ci metteva fuori dalla legalità, sono andato, su mandato del sindaco ovviamente, a Roma per farle vedere cosa noi già facevamo sul fronte della tutela del cavallo e lei è rimasta sorpresa di quanto Siena fosse avanti. Il testo definitivo delle legge, infatti, in molti punti sembra copiato dai nostri protocolli. Ed è andata proprio così, anche se lei non poteva riconoscerlo pubblicamente, perché noi siamo divenuti l’avanguardia sul fronte della tutela per manifestazioni che prevedono l’uso di animali. Abbiamo fatto scuola, innovando le nostre tradizioni. Analogo salto quantico dovremmo essere in grado di produrre anche in altri settori palieschi.

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David Taddei

Il riferimento è a tutta la querelle dell’inchiesta sui fronteggiamenti di agosto. Detto, per rispetto dell’intelligenza altrui e per una personale avversione alla retorica e al populismo, che la procura non avrebbe potuto fare altrimenti, di fronte a referti medici e a video visualizzati da oltre mezzo milione di persone, dico anche che la nostra sempre decantata capacità di autoregolamentare la Festa, su questo aspetto, è rimasta indietro di almeno qualche decennio. Tanto da non percepire quel mutato sentire dell’opinione pubblica italiana, così come invece accadde venti anni fa per gli incidenti dei cavalli. E ad essere sincero, anche allora non fu la pancia del Palio a capire che senza rapidi adeguamenti sarebbe arrivato qualcuno a mettere in dubbio perfino l’esistenza stessa della Festa. Fu la testa del sindaco, aiutato da qualche illuminato consigliere. Con qualche bercio, qualche spallata e buoni argomenti, alla fine, aprirono quella strada che oggi, da quel punto di vista, ci rende quasi inattaccabili, al di là del sempre possibile evento funesto che la sorte avversa può portare.

Oggi la situazione è simile e sul banco degli imputati c’è la violenza, il cazzotto che a Siena si definisce “sano” ma che nel resto d’Italia si riconduce al reato di percosse che, se commesso da tre o più persone, si chiama “rissa”, perseguibile d’ufficio, e diventa “aggravata” in presenza di lesioni personali. Hai voglia a dire che a Siena è un rito che epura la vera violenza, il rancore delle rivalità che potrebbe covare sotto la cenere invernale fino alla stagione nuova. Sono cose che fuori da Siena non può capire nessuno.

Fino ad oggi, questa spiccata diversità col resto d’Italia è stata preservata dal vecchio adagio non scritto che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Quando ho iniziato a fare il cronista alla fine degli anni Ottanta, i fronteggiamenti con annessi sani cazzotti, venivano confinati fra le brevi della cronaca cittadina. Giusto cinque righe. Al pronto soccorso i referti erano tutti per “caduta dai palchi”. Di telecamere in piazza c’erano solo quelle della Rai e Canale 3. I telefonini non esistevano, così come Internet. Insomma era parecchio più facile applicare il vecchio motto: si fa come ci pare. Oggi non è più così, anzi è da molto che non è più così.
Io e il mio caro amico David Rossi, sostenevano già alla fine degli anni Novanta che non avremmo più potuto farci forza del nostro beato isolamento. Dicevamo che, nell’era del villaggio globale, non serve la censura, anzi è nociva perché scatena virulente morbosità, richiama curiosi. Dicevamo che serviva presidiare gli spazi della comunicazione con notizie positive, statistiche, approfondimenti che riuscissero a spiegare la vera essenza del Palio anche a coloro che vi si avvicinano solo sporadicamente, giusto due volte all’anno in concomitanza con la Carriera. Notizie pronte, disponibili i rete, che facessero da contraltare ogni qualvolta incidenti improvvisi e imprevedibili esplodessero minando la credibilità della nostra Festa. Arrivavamo anche a proporre l’istituzione di un’agenzia dedicata al Palio che lavorasse tutto l’anno in questo senso raccogliendo dati statistici, studi e approfondimenti sul senso e sul valore del Palio producendo informazione o “contro informazione” rispetto ai canovacci .superficiali degli accusatori.

Una struttura che mettesse a bando borse di studio e di ricerca sul valore sociale, storico e antropologico del Palio, che cercasse in giro per il mondo i tanti illustri e autorevoli appassionati pronti a difenderci alla bisogna, così come ad esempio molte volte ha fatto Adriano Sofri contro i Feltri o gli Zeffirelli di turno. Vi ricordate le polemiche per la sua presenza alle trifore del Comune? Eppure ci ha tolto da parecchie guazze. I soliti esperti di Palio e di senesità bollarono l’idea come una stravaganza interessata di due ragazzotti in cerca di fortuna. Preferendo, tutti, rifugiarsi nella censura e invocando di “togliere le telecamere dal tufo”, la celebre frase salvifica che ci avrebbe dovuto preservare da ogni male. Una miopia tipicamente senese, capace di vedere l’albero ma mai la foresta. Come svuotare il mare con un cucchiaino. Eppure a qualsiasi studioso di comunicazioni di massa era già evidente, allora, che saremmo arrivati a questo tipo di realtà. Anzi, forse ci ha messo perfino più del previsto per manifestarsi in tutta la sua complessità. Mettere la testa sotto la sabbia, fare gli struzzi, non ci è servito a niente perché oggi nessuno, nemmeno i più conservatori di allora, pensa più che si possa contenere l’onda dei social media. Può piacere o non piacere e a me molto non piace questa totale mancanza di privacy, ma il fatto è che il mondo è andato in questa direzione e tutto sarà sempre più visibile ed immediatamente fruibile, che lo si voglia o meno.

Allora, così come Siena fece a metà degli anni Novanta per la tutela dei cavalli, dobbiamo chiederci in che modo si possa innovare la Festa e proteggerla da questi nuovi, omologati ed invadenti costumi.La forza è sempre stata quella di trovare autonomamente delle regole in grado di farci essere di fatto inattaccabili e in linea, se non avanti, con le leggi dello Stato. Possiamo e dobbiamo farlo anche per quello che riguarda i fronteggiamenti e, aggiungo immaginando un nuovo fronte prossimo venturo, anche su quello della preparazione e della professionalità dei fantini. Il come non spetta certo a me dirlo, anche se non è così difficile avere delle idee al proposito. Intanto, restando su un territorio che mi è più familiare, non sarebbe male cominciare a riflettere su quella che allora fu spregiativamente definita “l’agenzietta”, potrebbe fare molto comodo oggi.

David Taddei