19 giugno 1982: nella tana del mostro (seconda parte)

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Oggi come 34 anni fa. Un caldo anomalo che potrebbe appartenere al mese di agosto ma in questo 2016 siamo già nell’autunno inoltrato quando ripercorriamo quel passato che ci è entrato dentro e non ci dà pace. Chissà perché… Ce lo chiediamo da quando abbiamo cominciato questo lavoro, da quel giorno di febbraio umido e nebbioso in cui, a casa di Mario Spezi, forse non abbiamo capito tutto ma di sicuro abbiamo raccolto una sfida. Apparsa quasi un passaggio, ripensando oggi a quella chiacchierata.

Così ci ritroviamo a percorrere le strade di campagna, a parlare con le persone, a cogliere dettagli che forse erano rimasti nel limbo dove giace tutta questa terribile vicenda ancora senza risposta. Parlare con la gente del posto, con gli anziani, ci ha dato molto. Non sappiamo se sarà utile per la ricostruzione ma di sicuro lo è per ricordarci cosa significa il nostro lavoro. E non potremo toglierci di dosso la sensazione pesante del ripercorrere viottoli stretti e ripidi ricavati nei campi, vie di fuga coperte dalla vegetazione ormai ma… sempre lì. A ricordarci che la verità deve trovare spazio. Rimaniamo dunque a Baccaiano ma, per farvi entrare ancora di più negli stessi dettagli, torneremo necessariamente anche a Villacidro, in Sardegna. E a Signa.  Se vi siete appassionati, ora è il momento di mettere insieme i pezzi.

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L’ondata di caldo anomalo aveva colpito anche Firenze e, registrando un record assoluto per il mese di giugno, alle quattro del pomeriggio si erano sfiorati i 34 gradi. La pesantezza della giornata afosa si faceva sentire nelle gambe che, in modo scomposto e piegate dal naturale declino del greto del Virginio, affondavano in quella fanghiglia testimone di un corso d’acqua assente nei mesi estivi. L’umidità si univa al sudore rendendo pelle e capelli fradici, il respiro era qualcosa da trattenere, un moto istintivo da placare abbassando la testa all’interno di quella maglietta a strisce. L’ultima bustina di Norzetam, prescritta qualche anno prima dopo il ricovero a Santa Maria Nuova, era riuscita a stabilizzare l’umore e adesso l’unico pensiero era raggiungere un piccolo ponte, punto di arrivo da cui risalire in superficie. Erano più o meno venti minuti che tentava di correre seguendo il percorso già delineato dal secolare scorrere del torrente e la vista della strada sembrava quella salvezza che sapeva non avrebbe mai veramente raggiunto. Si stava arrampicando verso la balaustra che protegge la carreggiata quando lo scarpone perse aderenza e si ritrovò di colpo supino, occhi verso un cielo senza luna, il ponte era nuovamente lontano. Un dolore profondo gli trafisse la schiena e immediato fu il ricordo: aveva dieci anni quando suo padre lo ridusse in fin di vita, sua madre non era intervenuta e lui si era ritrovato con ingessature da capo a piedi. Scosse la testa, rimise a posto quel ricordo e facendo forza sui polsi sollevò il corpo. Tornò leggermente indietro e lasciando perdere le balaustre del ponte, si arrampicò lateralmente sul greppo per guadagnare finalmente la strada. Non aveva casualmente lasciato l’auto in Via Bonsarto; quella strada a tratti impervia conduceva verso un simbolo d’amore perso, verso l’ennesimo ricordo d’abbandono cercato e subito. Una moglie e madre aveva temporaneamente trovato rifugio in quel vecchio casolare, a massimo mezz’ora a piedi da Via Virginio Nuova se si decide di passare attraverso il letto secco del torrente che si tuffa tra vigne e olivi, elementi naturali delle splendide colline toscane.

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Dopo la prima sosta a Baccaiano abbiamo deciso di divagare e ci siamo lasciati prendere dall’immaginazione, vi abbiamo riportato quello che per certi versi potrebbe essere un futuro romanzo di fantasia e che probabilmente potrebbe proprio iniziare così come avete appena letto. Adesso torniamo però alla realtà. Siamo abituati a narrare questa vicenda attraverso prove documentarie e verbali, attraverso oggettive evidenze ed è da qui che riprendiamo abbandonando qualsiasi pretesa da romanzieri.

“Si fa un gran parlare nelle cronache di queste giornate tristi di mostri, di follia, di feroce manìa; ma noi sappiamo bene che persino la follia non è insorgenza gratuita; la follia dell’uomo è come l’esplosione irrazionale e violenta di un mondo e di una società che ha smarrito troppi valori; che diventa ogni giorno di più nemica dell’uomo. Stasera siamo tutti testimoni muti di una delle più gravi sconfitte dell’uomo” con queste parole il 22 giugno 1982 il Cardinal Benelli, Vescovo di Firenze partecipò all’omelia in occasione dei funerali di Antonella Migliorini e Paolo Mainardi. Una folla riempì la piazza del paese, gente stanca, gente impaurita, gente che aveva bisogno di risposte che non arrivavano da parte degli inquirenti.

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I sostituti Procuratori Izzo, Vigna, Canessa e Della Monica ed il Giudice Istruttore Tricomi, ognuno per le proprie competenze, ordinarono una serie di perquisizioni in abitazioni circostanti la zone dell’ultimo duplice omicidio e controlli finalizzati a schedare tutte le Beretta Calibro 22 messe in commercio fino al 1974. Fu inoltre stilata una lista di persone che negli ultimi anni avevano avuto a che fare con la giustizia per atti illegali legati alla sfera sessuale e maniacale e chiesto nuovamente alle diverse procure nazionali di riferire di eventuali casi analoghi avvenuti in luoghi distanti da Firenze. Fu ascoltato il volontario Allegranti che, dopo aver soccorso Paolo Mainardi ed a seguito del fallito tentativo della Procura che, con la collaborazione dei giornalisti, dichiarò di aver acquisito dalla vittima in fin dei vita interessanti particolari relativi all’inchiesta, lamentava minacce telefoniche alla propria persona da parte di un uomo che si identificava come il mostro di Firenze e fu istruita un’indagine relativamente alla produzione e messa in commercio del Norzetam, un farmaco appartenente alla categoria psicostimolanti e nootropi vendibile solo sotto richiesta medica e di cui una bustina fu ritrovata vuota il giorno successivo il delitto in una zona prospicente la piazzola di via Virginio Nuova.

 

Tutte queste operazioni non portarono a nulla di significativo e gli inquirenti, a distanza di quasi sette mesi si trovarono costretti a consegnare alla stampa l’identikit del mostro, realizzato grazie alla testimonianza rilasciata da Rossella e Giampaolo la sera dell’omicidio di Travalle. L’assassino aveva una faccia, il serial killer era in prima pagina e Firenze reagì di conseguenza. Molte persone subirono pressioni psicologiche a causa di vaghe somiglianze con il mostro “disegnato”che l’ignoranza popolare foraggiata dalla paura attribuiva loro. Un macellaio fu costretto a chiudere la propria attività, altri professionisti a presentarsi in questura ed in commissariato per smentire personalmente le voci che circolavano sulla loro persona fino all’evento rimasto simbolo di quel delirio che colpì Firenze dopo l’omicidio di Baccaiano: il 31 luglio Giuseppe Filippi, ormai da giorni bersaglio di sospetti a causa della propria somiglianza con l’identikit del mostro, decise di togliersi la vita motivando il gesto con la personale impossibilità a continuare a subire le violente illazioni verbali da parte di alcuni giovani.
E’ in questo clima di assoluta sensazione di impotenza di fronte ad un fenomeno fin a qualche anno prima solo immaginabile come soggetto per i più ingarbugliati film gialli che, improvvisamente, ma forse non troppo, un maresciallo dei Carabinieri, Francesco Fiori, si ricordò di quel delitto commesso 14 anni prima a Castelletti di Signa ed in cui avevano perso la vita Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Il Comandante Olinto dell’Amico accolse la confidenza di Fiore e furono fatti accertamenti su quello che sembrava un ricordo maturato alla luce di una semplice chiacchierata tra un maresciallo ed un appuntato. In effetti il collegamento aveva motivo di essere, all’interno del fascicolo relativo al processo a Stefano Mele e archiviato a Perugia dove si era svolto il secondo processo di appello a carico del marito della Locci, furono rinvenuti i bossoli ed i proiettili. La perizia balistica non lasciò dubbi: la pistola del mostro non solo sparava dal 1974, ma era evidente che aveva iniziato la serie omicidiaria almeno sei anni prima a Signa. E’ il 17 luglio 1982, finalmente gli inquirenti hanno una pista solida, valida, assolutamente da seguire, quella passata alle cronache come “la pista sarda”, quella che li porterà a fare conoscenza con una realtà difficile da scalfire, impossibile da piegare.
Durante la nostra sosta a Signa e successivamente a Villacidro  vi abbiamo anticipato quello che successe a seguito dell’ingresso dei sardi nella vicenda legata al mostro di Firenze; facciamo adesso un piccolo riassunto: a seguito del collegamento con l’omicidio del 1968, gli inquirenti si recarono a Ronco dell’Adige da Stefano Mele per provare a ricostruire gli accadimenti di quella famosa notte di agosto di quattordici anni prima.

Il Mele, ormai scontata la condanna, dichiarò al Giudice Istruttore Tricomi ed al Tenente Colonnello Dell’Amico di essere stato ingiustamente condannato e di aver accusato del duplice omicidio, in un primo momento Salvatore Vinci, poi Francesco Vinci ed infine Carmelo Cutrona. Questo valzer di nomi sarebbe stato dovuto alle minacce ricevute da Francesco affinché non lo accusasse come esecutore del delitto. Sulle dichiarazioni di Natalino che avrebbe visto suo padre sul luogo del crimine confermò la propria versione dicendo che in realtà lo stesso bambino la sera del proprio ritorno a casa dopo i primi interrogatori, gli avrebbe confessato che a sparare sarebbe stato Francesco Vinci. A questo punto gli inquirenti chiamano in causa il Vinci che risulta però non reperibile da almeno due giorni. Risulta inoltre che la sua auto è stata trovata in stato di abbandono il giorno 21 giugno in provincia di Grosseto. Scatta immediatamente un mandato di cattura nei confronti di Francesco Vinci, ma attenzione, motivato da un’accusa di violenza privata e non come sospettato dei duplici omicidi. Siamo in un momento cruciale di tutta questa storia: Francesco Vinci viene rintracciato e catturato sull’appennino Tosco-Romagnolo, in una casa di proprietà di un certo Giovanni Calamosca, figura già conosciuta dalle forze dell’ordine perché coinvolto in una serie di vicende che avevano iniziato proprio in quegli anni a stringere nella morsa le autorità istituzionali e di pubblica sicurezza del Paese, i sequestri di persona a scopo di ricatto. Quel fenomeno che passerà alla storia come Anonima sequestri sarda. Quando fu catturato, Francesco Vinci si stava intrattenendo sia con il Calamosca che con altri pregiudicati sardi. Nel frattempo Izzo e Della Monica continuano l’inchiesta sul 1968 e interrogano nuovamente Natalino Mele che confermò di non ricordare nulla di quella tragica notte, ma accennò ad un particolare: sua zia Maria da sempre gli aveva raccontato di come suo padre Stefano non c’entrasse nulla con l’omicidio, ma che comunque sarebbe stato sempre meglio continuare a dire di non ricordare nulla. Ecco che quindi scatta l’interrogatorio alla zia Maria, sorella di Stefano Mele. La donna negò la conoscenza con la famiglia Vinci, ma in casa i magistrati trovarono documenti relativi a quel famoso accordo economico, meglio parlare di debito, tra Stefano Mele e Salvatore Vinci di cui vi avevamo accennato durante la sosta a Signa. Gli inquirenti sentirono ogni membro della famiglia Mele e da tutti gli interrogatori vennero fuori idee, supposizioni, ricordi offuscati, cose sentite dire, ma mai nulla di certo al di fuori di un’assoluta sensazione: che fossero i Vinci i responsabili del duplice omicidio del 1968 e non certo il loro Stefano Mele. Il 17 agosto 1982 Silvia della Monica interroga Francesco Vinci sulle questioni legate alla presunte violenze nei confronti della moglie Vitalia Melis ed è in questa occasione che Francesco chiarisce il motivo del ritrovamento della sua auto in provincia di Grosseto a soli due giorni dall’ultimo duplice omicidio di Baccaiano ed il motivo per cui sarebbe fuggito un mese dopo dimostrandosi irrintracciabile. Nei mesi successivi furono sentiti tutti i membri della famiglia Vinci e Mele. All’interno di balletti e di insinuazioni, di tentativi di scaricare qualsiasi responsabilità gli uni sugli altri, dagli interrogatori e dalle intercettazioni non venne fuori nulla di certo. Fatto sta che i primi di novembre del 1982 le autorità comunicano ufficialmente a Francesco Vinci di essere indagato per omicidio basandosi essenzialmente su pochi elementi facenti perno più sulla personalità del Vinci che su solide basi probanti. Secondo gli inquirenti il vero responsabile del duplice omicidio del 1968 era in carcere e presumibilmente insieme a lui, il mostro di Firenze. Perché indagare su Francesco e non su Salvatore? In fin dei conti Stefano Mele aveva fatto in tempi diversi entrambi i nomi; crediamo che la fedina penale di Francesco sia diventata elemento indiziario, pensiamo che la giustificazione sull’occultamento della sua auto all’indomani delle vicende di Baccaiano (essersi recato in maremma per scegliere una mèta per le vacanze estive da passare con la famiglia circostanza smentita dalla moglie stessa, ma non elemento essenziale se avessero controllato gli affari illegali dello stesso Vinci nel grossetano), il carattere violento che invece non sembrava appartenere così evidente nel fratello, siano stati i soli punti cardine per giustificare una custodia cautelare che non faceva sentire al sicuro nessuno, né i fiorentini né parte gli stessi inquirenti. Vincenzo Tricomi, Giudice Istruttore, ai giornalisti all’indomani delle accuse che portarono Vinci in carcere:  “Non è minimamente detto che Vinci sia il mostro: anzi il pericolo adesso è maggiore. La pistola potrebbe essere passata di mano e il maniaco potrebbe entrare nuovamente in azione per rivendicare la paternità dei suoi omicidi.” Abbiamo tralasciato, a favore della narrazione, alcuni dettagli sui vari interrogatori che reputiamo creino confusione anche se servirebbero sicuramente a capire il muro di gomma contro cui gli inquirenti erano andati a scontrarsi, ma non possiamo fare a meno di riportare tre dichiarazioni che lo stesso Vinci rilasciò in quegli ultimi mesi del 1982: “Io non so spiegarmi perché il Mele insista nelle accuse nei mie confronti, posso ipotizzare che qualcuno abbia indotto il Mele a partecipare all’omicidio e poi nel contempo ad accusarmi per vendicarsi nei miei confronti” e inoltre “io posso sapere meglio di voi e non porterete a spostarmi da quella che è la verità…io ritengo che il programma del Mele e di chi con lui collaborò, fosse quello di eliminare la moglie e me pensando di sorprenderci insieme e che visto che era stato ucciso un altro, si pensò di addossarmi il delitto e mandarmi all’ergastolo” , ma soprattutto “sono anni che i carabinieri di Signa SPERANO DI FARE DI ME IL LORO CONFIDENTE. Per questo evidentemente mi devono incastrare. Piuttosto che fare IL CONFIDENTE mi ammazzo”.

 

Vi abbiamo riportato questi pochi brandelli di dichiarazioni rilasciati da Francesco Vinci perché d’ora in poi, ogni volta che parlerà, fornirà, a nostro avviso, una sua versione dei fatti che probabilmente poco si allontana dal chi, dal perché e dal come. Se probabilmente, come sembra certo, fosse venuta fuori la presenza di Antonio Vinci, figlio di Salvatore, all’interno di quella macchina che all’indomani del duplice omicidio Mainardi-Migliorini lasciò Firenze per essere abbandonata in Maremma e se il nipote di Francesco avesse confermato l’alibi dello zio, un elemento essenziale garante della custodia cautelare sarebbe venuto a mancare e Francesco Vinci non sarebbe finito in carcere con l’accusa di essere il materiale esecutore del 1968 e idealmente di tutti gli altri duplici omicidi attribuiti al mostro di Firenze.
Ormai è inverno, il terzo mostro è in carcere ed il nostro viaggio deve continuare per attraversare 14 mesi in direzione di Via di Giogoli. Lasciamo Baccaiano con la certezza di aver fatto un buon lavoro, con la voglia di tornarci perché qualcosa ci dice che parte della verità abiti ancora lì, come un fantasma, come una presenza parlante obbligata al più terribile dei compromessi: il silenzio.

Andrea Ceccherini

Katiuscia Vaselli