Figli di Freud – prima puntata. Freud, scoperte e invenzioni come la psicoanalisi

Se questo racconto fosse un film, comincerebbe stringendo l’inquadratura sul viso serio, austero e pensoso di un giovane uomo di un’età tra i trenta e i quaranta. La barba e i baffi neri e rigogliosi gli danno un’aria grave, il volto, leggermente appesantito, è diverso da quello più affilato con cui saremo abituati a riconoscerlo più vecchio, quando sarà ormai diventato famoso. Lo vediamo scendere, meditando, le poche scale che separano la sua abitazione dallo studio situato al piano terra dello stesso stabile. Ci troviamo nella Vienna di fine Ottocento, la rigida atmosfera vittoriana comincia a mostrare qualche crepa, la città è ricca di nuovi fermenti culturali. Il nostro protagonista è un neurologo, molto interessato alla professione ed ai suoi ultimi sviluppi. Anche quella mattina, come gli capita da tempo, sta cercando il coraggio di provare una modifica della tecnica che di solito usa specialmente con le sue giovani pazienti, quasi tutte affette da quella nuova malattia che si chiama “isteria”.

Ormai, infatti, ha notato che il metodo ipnotico con l’imposizione di una mano sulla fronte della paziente, procedimento con cui spesso dava inizio alle sue visite, può forse essere trascurato. Chissà – ha pure pensato – anche il metodo suggestivo che si basava sul ripetere con voce tranquilla una serie di formule, sempre con lo scopo di far parlare la paziente in piena fiducia delle sue pene, potrebbe essere abbandonato. Entrambe le metodiche lo facevano ripensare ai sei mesi passati a Parigi qualche anno prima, a Charcot ed alle lezioni di quel grande professore francese alla Salpêtrière. Lui, che aveva cominciato con la Neurologia, si era fatto attirare, quasi irretire da questa nuova patologia che stava emergendo in quella “fin de siecle”: l’isteria. Si trattava in maggioranza di giovani donne che manifestavano paresi motorie o altre strane, intermittenti, patologie che sembravano contraddire tutte le nozioni di anatomia nervosa e che si giovavano di approcci terapeutici diversi e nuovi.
In quegli anni Charcot rappresentava l’autorità più riconosciuta nel campo e lui era andato a Parigi per imparare. Qualcosa però del suo approccio con quelle dimostrazioni così spettacolarizzate (che qualche volta mettevano insieme le epilettiche e le isteriche) in cui consistevano le sue lezioni, non lo convinceva e così aveva cominciato, una volta tornato a Vienna, a pensare come cambiarlo.
Si era ormai convinto, parlando anche con altri colleghi che seguivano quel metodo, che il fulcro della terapia fosse quel parlare, quel raccontare che permetteva alla paziente di esprimersi liberamente come non mai. Qualcuno già l’aveva battezzata la “talking cure”, la cura di parole. Forse – questa sempre più spesso era la sua riflessione – si poteva lasciar perdere tutto quel ciarpame iniziale. Il giovane medico con la barba, quel mattino scendendo in studio, rimuginava tra sé: intanto la paziente, in quella posizione quasi distesa sul divano dello studio, è già portata al rilassamento e forse mi posso limitare a invitarla a parlare liberamente di tutto quello che le viene in testa.
La decisione era presa, quel giorno con Anna, la prima paziente della giornata, avrebbe provato con quel metodo ancora più semplice, quasi disincarnato, dove spariva anche l’ultimo contatto fisico. Si era finalmente convinto che l’importante fosse esaltare la funzione importantissima dell’ascolto, il semplice ma attento ascolto di una persona che, parlando, raccontava di sé.
Non sappiamo in quale giorno, con precisione, si svolse questa scena che ho romanzato.
Certamente siamo negli ultimi anni dell’Ottocento, con ogni probabilità in un periodo che va dal 1891 al 1896, a Vienna, e quello studio medico (questo sì è certo), da poco inaugurato, si trovava in Berggasse 19, una piccola strada in una zona allora abitata da giovani professionisti emergenti e ambiziosi, appena fuori dal Ring, studio che oggi è diventato un frequentatissimo museo.
Infatti in quel luogo ed in quel giorno sconosciuto viene inventata la psicoanalisi.

Nella foto, oltre a Freud in là con glia anni, appare Jofi, il mitico chow chow che stava sempre con lui, assistendo anche alle sedute

Alcune cose si scoprono, altre si inventano. Può sembrare una distinzione capziosa, ma vi invito a rifletterci attraverso alcuni esempi. Colombo scopre le Americhe (anche se pensa di essere arrivato in India) il 12 di ottobre del 1492, invece il 3 settembre del 1928 accade a Fleming di scoprire il potere antibiotico di alcuni funghi. La natura era lì, da sempre, ad attendere che qualcuno la scoprisse, che fossero le Americhe o il potere terapeutico di alcuni funghi.
Diversamente avviene quando qualcuno inventa qualcosa.

(segue)

 

Andrea Friscelli