La notte in cui crollò la torre – quinto capitolo

La notte in cui crollò la Torre, una fiction attraverso la quale si raccontano le mutazioni a cui il sociale in genere, e quello che si occupa di psichiatria in particolare, sta andando incontro in questo periodo di crisi. Il tentativo dell’autore è quello di dare un piccolo spaccato di come si sia sviluppata ai giorni nostri quella parte di assistenza psichiatrica che si interessa di reinserimento lavorativo e che si è sviluppata soprattutto attraverso la cooperazione sociale. Questo movimento, molto presente anche a Siena, e che ha alle spalle diversi decenni di storia, sta vivendo adesso un momento critico e rischia attualmente di subire mutazioni importanti se non addirittura di finire. È naturalmente una storia inventata, almeno nei personaggi e nei fatti raccontati ma molto verosimile. È invece ambientata in luoghi conosciuti e familiari per molti di noi: la valle di Porta Giustizia. E una storia che cerca anche di mescolare le vicende di fantasia con la crisi generale di questi anni e con la crisi di Siena in particolare, raccontata in un modo metaforico e surreale.

 

Capitolo 6 – Alfredo ed il suo funerale

La riunione si è sciolta e camminando verso casa Alfredo rimugina sull’accaduto. Ha avuto l’idea che Paolo cercasse di minimizzare, Mimma invece fremesse d’indignazione e di ansia e a Carmen tutta la cosa bruciasse ancora parecchio, quasi si sentisse un po’ colpevole, perché l’assegno lei non l’aveva subito messo in salvo. Rimpiange l’assenza di Maria che, probabilmente, con la sua tranquilla lucidità avrebbe portato una parola costruttiva in quel frangente così delicato. Pensa, chissà se a ragione, di conoscere bene quelle persone, l’amicizia che esiste tra loro e avverte il rischio che la cosa successa possa, in tal senso, davvero peggiorare le cose, precipitandoli in un’atmosfera di sospetti e veleni di cui in quel periodo non c’è proprio alcun bisogno.
Ma è venuto il momento di far conoscere meglio ai lettori chi è Alfredo e qual è il suo ruolo nella cooperativa.
Alfredo è ormai anzianotto e gli succede da un po’ di non dormire bene. Fa fatica a prender sonno. In quelle ore gli capita di aspettare con impazienza il mattino, la luce, il riprendere a fare quello che deve. Sa, infatti ormai per esperienza, che in quelle lunghe ore può capitare che il pensiero vada a rivedere le scelte fatte, sempre chiedendosi se sbagliate o no.
Forse perché di scelte importanti nel corso della vita ne aveva fatte diverse. Aveva imboccato la professione bancaria, incaponendosi contro il parere di tutti, dopo la laurea in filosofia. Poi, per rompere un po’ la monotonia di quel lavoro, aveva cominciato a frequentare gli ambienti che s’interessavano del sociale. Da lì era nata l’idea di fondare, insieme con altri, una cooperativa, un progetto che era andato in porto ma che gli aveva preso tanto tempo. E infine qualche anno fa aveva deciso di dimettersi dalla banca, un’altra volta contro il parere di tutti, per occuparsi a tempo pieno della cooperativa. Era stato un percorso a zig zag, qualcuno (sua madre, tanto per non fare nomi) gli aveva detto che era “ondivago”, che prima si era preoccupato dei soldi e poi invece, dimettendosi dalla banca, mostrava di trascurare proprio quell’aspetto. Certo lo sapeva anche lui che lasciando la banca avrebbe rinunciato a soldi e carriera, ma in quel periodo aveva ricevuto un’eredità da una vecchia zia che aveva assistito nei suoi ultimi anni e questo gli avrebbe permesso di farcela bene, insomma era disinteressato, ma mica scemo. Per fortuna sua moglie, l’unica donna della sua vita, lo aveva appoggiato con convinzione in queste sue rivoluzioni. Le resistenze venivano sempre dai suoi genitori, specialmente da sua madre che lo criticava continuamente. Ma ormai lei non c’era più, era morta da un paio d’anni. Questo lo rendeva naturalmente più libero, ma si rendeva conto che, in quel periodo che poteva ancora essere definito di lutto, continuava a fare i conti con lei, quasi più di prima. Negli ultimi tempi, infatti, capitava spesso che i pensieri girassero per conto loro, le antiche ferite si riaprissero rimuginando intorno alle solite cose, sempre le stesse.
E poi qualche volta, d’improvviso, partiva la fantasia del funerale, del suo funerale, di assistere al suo funerale.


Forse tutti durante la vita prima o poi pensano a quella situazione finale, ma a lui capitava in quel periodo di indulgervi spesso, quasi fosse una sorta di sogno ad occhi aperti. E lo era davvero, un sogno, perché riusciva a trasformare quell’evenienza in una sorta di trionfo, postumo magari, ma assoluto. Immaginava la presenza di tante persone autenticamente addolorate, una moltitudine di vario tipo: qualche autorità, poche ma non del tutto secondarie, qualche amico intellettuale.

Soprattutto, però, molta gente povera, i bassifondi di Siena, oltre naturalmente agli amici e ai parenti, tra loro, incomprensibilmente (ma tanto era un sogno) anche sua madre. I giornali cittadini gli avrebbero, probabilmente, dedicato un quarto di colonna con belle parole sul suo curriculum vitae, magari anche con corredo di foto e qualche ricordo personale di chi lo aveva conosciuto meglio.
Immaginava che la chiesa, qualunque fosse stata, non sarebbe bastata a contenere tutta quella gente. In qualche maniera tutti avevano motivi di stima e di riconoscenza nei suoi confronti e quella cerimonia sarebbe stata l’occasione per misurare in modo oggettivo quei sentimenti. A tanti aveva fatto del bene in maniera disinteressata, a qualcuno aveva prestato soldi senza poi pretenderli indietro, con molti si era comportato in maniera limpida e priva di piaggeria. Tutto senza clamore e grancasse pubblicitarie, con lo stesso stile aveva anche fatto qualcosa per la città, certamente poco, ma non niente. A suo merito poteva ascrivere il rilancio dell’Orto, l’impegno nel terzo settore e nel volontariato. Tutto questo – pensava Alfredo – gli sarebbe stato riconosciuto attraverso quel tributo di popolo, un omaggio sincero e sentito. Molti si sarebbero sinceramente rattristati, qualcuno avrebbe anche pianto, molti avrebbero ricordato quanto era buono, alcuni avrebbero sottolineato le qualità della persona che non c’era più.
Quello era il problema più antipatico: lui non ci sarebbe stato a raccogliere tutto quel successo e a verificare che davvero sarebbe andato tutto a quel modo. La fantasia, gli appariva chiaro, finiva solo per esplicitare il giudizio che, in alcuni momenti di particolare ottimismo, aveva di sé stesso.
Di solito però dopo aver molto insistito in quelle fantasie ad occhi aperti, prevaleva il suo naturale senso della misura, sentiva che stava esagerando, che la visione di sé era sbagliata, edulcorata, quasi mitizzata. Prima di tutto sapeva che solo una morte in qualche modo pubblica, clamorosa, provoca reazioni di folla simili a quelle che immaginava e, insomma, di morire a quel modo non aveva tanta voglia. E così nascevano dentro i dubbi: era proprio sicuro che molti non lo giudicassero uno troppo buono, cioè un po’ coglione, uno che non aveva le palle per riuscire a dire anche no? Che molti altri non sapessero neppure chi fosse o, peggio, conoscendolo lo stimassero insignificante e anonimo? E di quanti poteva dire che gli avevano voluto bene, lo avevano amato per davvero?
A questo punto entrava in un’area mentale difficile da percorrere, piena di buche e trabocchetti, di molti piagnistei e di qualche dolorosa verità. Spesso a quel punto batteva in ritirata, troppe volte aveva provato a disboscare quel terreno, senza mai riuscirci in modo definitivo, tanto valeva rinunciare.
Così capitava che dopo aver percorso per intero quella specie di “loop” mentale ormai collaudato, nella sua parte up e in quella down, smetteva di pensare al proprio funerale e magari morto di stanchezza finiva per addormentarsi di traverso sul divano.
E al mattino che, finalmente arrivato, cancellava tutte quelle “seghe mentali” tornava ad occuparsi delle cose che aveva da fare con quella calma priva di ansia, quasi con un pizzico di pigrizia, difetto (o pregio?) che aveva acquisito negli ultimi anni, riprendendo una dimensione di serena operatività.
Ecco, quella mattina doveva ripensare meglio alla riunione del giorno prima. Sentiva una responsabilità verso quelle persone che si erano imbarcate nella cooperativa, certo per trovare un lavoro, ma un po’ anche perché lo conoscevano e si fidavano di lui. Era stato il presidente per tanti anni ma pure adesso, dopo aver passato tutto in mano a Paolo, sentiva la voglia di far andare bene le cose.
Temeva molto l’atteggiamento di sospettosità maligna che un fatto come un furto in genere tende a creare. Qualche volta, era sicuro, esagerava nel non pensare male, ma, se non voleva soffrire, “doveva” fare a quel modo.
Non era mai stato d’accordo con il motto di andreottiana memoria: “a pensar male non si andrà in paradiso, ma spesso ci si azzecca”. Per com’era fatto lui, quel motto andava riscritto così: “A pensar male, spesso si sciupano i rapporti e si complicano di molto le cose”.
Per questo la frase che più lo preoccupava era stata quella maliziosa precisazione di Mimma – se vogliamo escludere i presenti…– Forse neppure Mimma includeva davvero qualcuno dei presenti tra i possibili colpevoli, ma quella notazione segnalava che l’atmosfera interna si stava inquinando.
Certo che i presenti, quei presenti lì (Mimma, Paolo e Carmen) andavano esclusi, perché se ci si permetteva di lasciar crescere simili sospetti, molte cose si sarebbero rovinate, magari per sempre. Pertanto, naturalmente anche per motivi più oggettivi, nessuno di loro poteva essere guardato con diffidenza. Diversamente era per gli altri tre (Mamadou, Simone e Giovanni). Sapeva che le difficoltà che avevano, differenti per ciascuno di loro, potevano portarli a commettere atti sbagliati e sciocchi, come prendere un assegno intestato alla cooperativa.
Doveva capire meglio i tempi, farsi un’idea più chiara attraverso i colloqui che erano in programma, insomma risolvere quel “caso”.

Intanto i consueti controlli di manutenzione, quelli che i geometri del Comune facevano con frequenze sempre più lontane tra loro, erano diventati ormai una routine e, come spesso capita in occasioni del genere, si finiva di parlare di tante cose, ma l’attenzione per la Torre era sempre minore.
Andrea Friscelli

ANDREA FRISCELLI È NATO A SIENA, DOVE HA STUDIATO AL LICEO PICCOLOMINI E SI È POI LAUREATO IN MEDICINA NEL 1974. SPECIALIZZATO IN PSICHIATRIA, HA LAVORATO NEL SERVIZIO PUBBLICO FINO AL 2001, QUANDO SI È DIMESSO PER SEGUIRE A TEMPO PIENO LE VICENDE DELLA COOPERATIVA LA PROPOSTA CHE HA CONTRIBUITO, INSIEME AD ALTRI, A CREARE. HA PUBBLICATO PRESSO L’EDIZIONI IL LECCIO “DI STOFFA BUONA” (NOVEMBRE 2011) E “NELLA CRUNA DI UN AGO” (DICEMBRE 2012).PRESSO BETTI EDITRICE INVECE HA PUBBLICATO “L’ORTO DE’ PECCI E LE SUE STORIE” (SETTEMBRE 2014) E “LO SPLENDORE NELL’ERBA, LA GLORIA NEL FIORE” (DICEMBRE 2015)