Analfabeti delle emozioni

Lo strutturarsi degli attacchi di panico ha radici lontane, in quello che viene definito analfabetismo emotivo e quindi in una incapacità di gestire e riconoscere le emozioni.

Prima di parlare di questo vorrei chiarire che cos’è un attacco di panico.

Viene descritto come un fulmine a ciel sereno. Un improvviso attivarsi di palpitazioni, con il cuore che batte all’impazzata, tremori, difficoltà respiratorie, affanno, sensazione di soffocamento, dolore al petto, formicolio o torpore in qualche distretto del corpo, sudorazione fredda, brividi, vampate di calore, vedere tutto nero, vertigini, nausea, diarrea, sensazione di vuoto alla testa o di sbandamento, senso di svenimento, de-realizzazione (cioè senso di perdita di contatto con la realtà), de-personalizzazione (cioè senso di perdita di contatto con se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazione di stare per morire, angoscia.

Per essere più precisi sono tutte queste sensazioni che creano uno stato di allarme che sfocia in angoscia per non sapere cosa stia capitando né, quindi, cosa ci si possa fare.

Questo è l’attacco di panico, un insieme di sintomi somatici e psichici che al soggetto appaiono del tutto insensati e che pur di non ritrovarsi a riprovare una tale esperienza, è disposto a tutto.

Le strategie per evitarlo tendono a diventare così massicce e pervasive da compromettere l’andamento della propria quotidianità, con grave danno e grande infelicità per se stesso e per le persone che lo circondano.

Non si giunge alla diagnosi se non quando le crisi di ansia si siano ripetute per diverso tempo e si sia concluso l’iter di esami strumentali svolti in area cardiologica e medica, alla ricerca di una qualche lesione organica, ignorando o almeno sottovalutando la componente emozionale, considerata come secondaria.

Come già accennato, la base degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni dando maggior rilievo e attenzione ai sintomi puramente fisici: il cosiddetto analfabetismo emotivo si viene così strutturando a causa di una refrattarietà verso certe emozioni o verso l’intera vita emotiva da parte dell’ambiente in cui il bambino cresce.

La naturale funzione materna di cure empatiche, fa sì che il figlio si senta contenuto e possa sperimentare il proprio senso di esistere come individuo, raggiungendo sempre maggior senso di unità e integrità; se ciò non avviene e si assiste, al contrario, ad un deficit di responsività genitoriale, nel bambino si creerà un terreno fertile per l’instaurarsi del disturbo di attacchi di panico.

Il rapporto che si crea con i genitori è tale che le naturali paure infantili, anziché essere riconosciute e contenute, continuano a costituire una prolungata ed eccessiva richiesta di aiuto e di protezione, bloccando le attività esploratorie e lo sviluppo della sicurezza di sé; l’adulto è quindi un adulto iperprotettivo e ipercontrollante, preoccupato di quello che può accadere al figlio, non tanto internamente, quanto piuttosto nel suo entrare in contatto con l’ambiente esterno, sottolineando i pericoli che costellano il mondo, la malafede della gente, la debolezza e vulnerabilità alle malattie, operando così una scissione tra corpo e psiche, non riconoscendo l’emotività del figlio.

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Si sviluppa, quindi, nel bambino e poi nel ragazzo, una notevole capacità di controllo delle proprie manifestazioni interiori, per evitare di provare sensazioni nuove che possono essere percepite come destabilizzanti e per evitare di risultare deboli agli occhi degli altri che potrebbero in qualche modo approfittarne.

Si riscontra una difficoltà di introspezione e di collegamento tra ciò che si prova, si pensa e ciò che accade; si struttura un’immagine di sé vulnerabile e più bisognosa di cure rispetto agli altri, da tenere nascosta sotto perché disprezzata.

L’adolescente oscilla tra le sensazioni di ribellione, in lui provocate dall’iperprotezione dei genitori e il timore che la tanto desiderata autonomia, lo esponga ai pericoli che ritiene essere la principale componente della realtà.

Inizia a costruirsi fantasie e sogni di libertà che si traducono con un fastidioso senso di costrizione al momento in cui ne viene impedita la possibilità; fantasie di libertà con contenuti a tal punto estremizzati che si struttura il “mito dell’indipendenza “, un’indipendenza però irraggiungibile, assoluta; in realtà quello che poi mettono in atto è un’accurata ricerca di prevenzione nei confronti di situazioni potenzialmente angoscianti. Coloro che sviluppano attacchi di panico cercano di trovare nella realtà esterna punti di sicurezza cui attribuire quelle funzioni di rassicurazione che in se stessi credono di non potere e sapere attivare.

In questo modo si viene a creare una situazione paradossale tra il rifiuto di dipendenza che li fa sentire umiliati e disprezzati e il desiderio di indipendenza che rappresenta il loro bisogno di essere, di sentirsi e di porsi nel mondo come soggetti.

Ognuno di loro è un ex bambino che nella relazione genitoriale, si è sentito ed è stato smentito è svalutato nel suo essere soggetto. Sente di non sapere di non aver imparato come si fa ad essere e a farsi riconoscere soggetto nelle relazioni, confondendo l’essere soggetto con la “indipendenza”, con l’abolizione cioè di ogni relazione.

Dott.ssa Monica Perozzi
medico chirurgo – psicoterapeuta