Le domande che abbiamo eluso, per paura o per debolezza, prima o poi ci raggiungono e ci interrogano. A volte lo fanno sotto forma di sogni (o di incubi), a volte sotto forma di perdita (di una persona, di uno stato d’animo, della gioia di vivere), altre volte ancora sotto forma di inquietudine. Anche se la propria strada uno è riuscito a trovarla lo stesso, anche se il proprio mestiere si avvicina moltissimo alla professione desiderata. Ma i discorsi non conclusi – forse mai veramente iniziati – sono destinati prima o poi a ripresentarsi. E a chiederci conto delle nostre azioni, tanto di quelle compiute, quanto di quelle mancate: come già la saggezza degli antichi predicava, non si può fuggire in eterno da se stessi. Duccio, il quarantenne professore di musica protagonista dell’intenso romanzo di Silvia Roncucci, “L’anno della morte di Kurt”, dagli Sati Uniti, dove insegna, si reca in visita a Siena con i suoi studenti. È la quarta volta in poco meno di vent’anni che ritorna nella sua città natale, dove risiedono ancora familiari (il padre no, il padre è morto, stroncato da un infarto) e conoscenti. Ritrovare i luoghi della propria infanzia e della propria adolescenza, riprendere il dialogo con chi aveva segnato profondamente quelle due fasi dell’esistenza, come Sara, una sua compagna di classe, mettono Duccio di fronte al proprio passato, alle proprie mancanze, alle proprie insufficienze colpevoli, ai propri complessi non risolti. Il pessimo rapporto che lui intrattiene con le persone e, in particolare, con l’universo femminile, riceve allora nuova luce, al pari dell’abbandono della casa paterna prima, della precipitosa partenza, per il New Jersey, poi. E mentre Siena, perduta e ritrovata, si schiude come la corolla di un fiore sotto gli occhi del lettore, con le sue strade, le sue piazze, i suoi vicoli, la centralità della famiglia (con le sue non poche ombre) nella formazione dell’individuo – in questo caso Duccio – viene indagata e riaffermata da Silvia Roncucci. Il passo che segue, appartenente al capitolo iniziale, presenta Duccio e Sara quando ancora, a Siena, frequentano la scuola secondaria superiore.
“Piegato a metà sul lato destro, il foglio esibiva un due blu inoppugnabile. Una qualunque altra cifra colorata di rosso non sarebbe stata altrettanto preoccupante. Il rosso era il colore degli errori non troppo gravi, delle insufficienze recuperabili, degli intoppi di percorso sanabili senza troppa fatica: quattro, massimo cinque ore di lezioni private e ci si sarebbe tolti il pensiero. Il blu, invece, era tutt’altra cosa. Il baratro abissale tra un “mi hai deluso”, pronunciato con tono serio dalla prof di Greco, e il miraggio di lei che tratteggiava sul medesimo pezzo di carta un sei, foss’anche sfuocato, traballante, tristemente politico. Duccio immaginava che Sara pensasse a questo mentre la osservava, seduto accanto a lei, e si chiedeva l’effetto che avrebbe fatto una frase del genere sullo spirito fragile della sua amica. Poi si guardava attorno per vedere le reazioni degli altri compagni – per lo più disinteressati all’accaduto – e infine riguardava Sara, che fissava impassibile il foglio che continuava a esibire quel due senza vergogna. Spostatosi lievemente indietro con il busto, come per mostrare rispetto in presenza di una salma, Duccio cominciò a ingoiare la saliva, facendo sobbalzare a tratti il pomo d’Adamo, ticchettando con i polpastrelli sotto il banco nella speranza di produrre un suono energico che rompesse l’atmosfera opprimente”.
Silvia Roncucci, L’anno della morte di Kurt, La Ruota edizioni, Roma 2018
a cura di Francesco Ricci