Diffamazione a mezzo stampa, i rischi su Facebook

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Dovendoci  trovare  nella  generazione  del 2.0  e  dovendo  ormai   considerare  Facebook come il luogo di incontri, di condivisione e di sharing  più utilizzato dai nostri giovani (e non solo ) è oramai sempre più incalzante l’utilizzo del noto social anche per la diffusione di « pensieri » che, per loro natura, laddove espressi, « potrebbero » ripercuotersi anche sulla vita  « reale » e quindi estranea al c.d. « cyber World ».

La Suprema Corte di Cassazione ormai più volte si è espressa in materia di « moltesie », « disturbo della persona » e « diffamazione » a mezzo Facebook.

E’ proprio per quest’ultimo reato che il Palazzaccio ha sentenziato recentemente giungendo alla sua attenzione un caso degno di nota per il periodo storico che stiamo vivendo.

Con Sentenza 24431/15, depositata il 08 Giugno 2015, la Suprema Corte nuovamente riaffronta la tematica in questione dando risalto all’aspetto « penalistico » in più occasioni posto all’attenzione dell’Organo e relativo all’utilizzo del famoso Social.

La controversia prendeva vita dalla Denuncia/Querela di un privato che rinveniva sulla propria bacheca un intervento « non piacevole » da parte di un soggetto (privato anch’esso) identificabile con nome, cognome e foto che riportava con certezza all’autore del Post.

Il Giudice di Pace Penale di Roma, nonostante non ipotizzato negli atti processuali, dichiarava la propria incompetenza in quanto riteneva dovesse valutarsi la fattispecie della diffamazione aggravata ( ex Art. 595 III comma C.P.).

Per il caso di specie, infatti, la normativa di riferimento ritiene ravvisare che
«se l’offesa è recata a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità …. la pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a 516 €»

Il contenzioso di cui era causa, dunque, veniva valutato dall’organo Giudicante come se la diffamazione, in quanto perpetrata all’interno di un social, fosse da associarsi a quella perpetrata a mezzo Stampa ritenendo le due fattispecie di medesima lettura.

Diversamente il Tribunale Penale di Roma, acquisiti gli atti, escludeva anch’esso la propria competenza a giudicare in quanto, in realtà, non riteneva ci fosse « aggravante giornalistica » poichè omesso il comportamento difensivo di parte offesa nella gestione e difesa dei propri dati sensibili così come settati all’interno del noto Social network.

La Suprema Corte, intervenuta, restituiva il fascicolo al Giudice di Primo grado ritenendo di dover accreditare la similitudine tra l’offesa a mezzo internet (2.0) e l’ordinaria diffamazione su colonna piombata.

L’estensione, secondo la Corte, che accreditava dunque la « responsabilità  giornalistica » estendendola per il caso di specie anche nei casi in cui il reato è perpetrato tramite « Facebook », deve essere applicata proprio in ragione dell’enorme potenzialità che il noto social network ormai  ha in sè.

Il social, che ormai le statistiche in Italia ci comunicano contare circa 26 milioni di utenti di cui l’80% connessi quotidianamente, ha la giusta capacità quale mezzo utilizzato per la consumazione del reato, idoneo a raggiungere una pluralità di persone onde cagionare un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa.

Dunque, per tali motivazioni, se lo « strumento principe della fattispecie in esame » (diffamazione) è la stampa quotidiana e periodica è dunque altresì veritiero ipotizzare che « i reati di ingiurie e diffamazione possano essere commessi via internet » e che, difatti, la norma che cita l’aggravante giornalistica indica anche «qualsiasi altro mezzo di pubblicità ».

In sostanza, inoltre, la Suprema Corte ritiene che il « meccanismo delle amicizie a catena di Facebook » «ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero INDETERMINATO di persone e, pertanto, di amplificare l’offesa in ambiti sociali allargati e concentrici ».

La pena, duque, per il caso preso in esame, potrebbe raggiungere fino a 3 anni di reclusione dovendosi considerare il reato aggravato perchè acquisito l’inciso di cui all’Art. . 595 III comma C.P.

Già nel 2014, per un caso similare, un privato presentava  Denuncia/Querela per un messaggio « sgradevole » postato da terzo soggetto sulla propria bacheca personale Facebook.

Valutando, per la fattispecie il dettame dell’Art. 660 c.p (molestie o disturbo alle persone) la Suprema Corte, con Sentenza numero 37596/2014, stabiliva  che ; Integra il reato di cui all’art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) l’invio di messaggi molesti, “postati” sulla pagina pubblica di Facebook della persona offesa, trattandosi di luogo virtuale aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi di “luogo aperto al pubblico.

Anche per il caso di specie la Corte riteneva che era da considerarsi innegabile come « la piattaforma sociale di Facebook – disponibile in 70 lingue con circa 100 milioni di utenti iscritti – non debba considerarsi alla stregua di una piazza (immateriale) che consente un numero INDETERMINATO  di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare »

L’evoluzione scientifica e le novità previste dal Cyber World, a questo punto, non possono come farci riflettere ponendo all’attenzione di chiunque navighi in rete delle responsabilità estensive che potrebbero coinvolgere il proprio operato.

Le decisioni come quelle espresse, in particolar modo proprio l’ultima del corrente mese, non vi è dubbio come stiano creando e quindi sollevando importanti polemiche, anche perchè la Cassazione, così facendo, ha accomunato i 25 milioni di Blogger e Social media followers  a giornalisti veri e propri e la cosa che più di ogni lascia riflettere, di contro, è invece come il Parlamento stia cercando di eliminare proprio l’aggravante, prevista dal cit Art. 595 III comma, per diffamazione a mezzo stampa.

 a cura dell’Avvocato Fabio Maggesi, Esperto in Diritto Internet & Cyber Law