Sono le 17 di uno dei pomeriggi più torridi che questa estate ci impone, è il 5 agosto e le città sono vuote. Anche Prato. Ma è qui che nelle ultime due settimane si è concentrata l’attenzione dei media, qui all’interno dell’anello del terrore del mostro di Firenze, a due passi da Travalle, dove abita Giampiero Vigilanti. Lui, il legionario, salito alla ribalta delle cronache dai primi anni Ottanta insieme ad altri personaggi che legano il proprio nome alle vicende del mostro, torna prepotentemente a far parlare di sé quasi in maniera inspiegabile. Perché uno dei casi principe della cronaca nera italiana dell’ultimo mezzo secolo, forse non si è mai chiuso davvero nonostante lo fosse formalmente e solo formalmente riaperto poco più di un anno fa (febbraio 2016, ndr, si può rileggere qui l’intervista esclusiva a Siena News qui, l’ultima fatta da Mario Spezi) . E perché, proprio come è stato durante le indagini e le fasi del processo, si è sempre guardato oltre. O almeno, si è guardato oltre da un certo punto in poi.
Il legionario non vuole rilasciare interviste vere e proprie, con noi è una chiacchierata che accetta di far registrare e pubblicare, per il resto, dice, vorrebbe essere lasciato in pace. Del resto anche le domande nostre sono diverse da tutte le altre perché noi, dalla nostra idea e da quello che ci ha lasciato Spezi e sul quale abbiamo lavorato, non vogliamo allontnarci perché non crediamo molto ad altre ipotesi. Abbiamo scelto una strada, quella è. Dal 2 febbraio 2016, controvento e contro quanti appena sei mesi fa neppure avevano mai preso in considerazione il nostro punto di vista.
“Non è facile per me e nemmeno per mia moglie Elena e per i miei figli accettare tutto questo. Una situazione che va avanti da quasi quarant’anni e non trova fine. Soprattutto perché io sono estraneo ai fatti, non so nulla”.
Eppure, forse per quelle famigerate quattro pistole rubate in casa sua appena un anno fa e per gli oltre 170 proiettili ritrovati invece nella sua abitazione, Vigilanti non trova pace. Che tipo di pistole erano e perché non hanno rubato anche i proiettili? “Una turca, la Calibro 22 e altre due che non ricordo. Regolarmente registrate. Ovvio che i proiettili non li abbiano ritrovati, per la sicurezza in casa non li tenevo certo nello stesso posto”. Eppure i proiettili sono una questione importante. Marca winchester. Ma avevano davvero quella lettera H impressa sul fondello, gli stessi cioè riconducibili a quella Calibro 22 che ha ucciso 16 persone? “Non saprei. Ma negli anni gli inquirenti hanno visto sia le pistole che i proiettili e non hanno mai verificato né le une né gli altri, quindi non lo ritenevano importante”.
Di sicuro Vigilanti sa che si sta sbagliando pista: “Devono guardare oltre altrimenti non risolveranno mai il caso”. Allora c’è da capire cosa cerchino davvero gli inquirenti nell’uomo di 86 anni con un passato non indifferente: arruolato nella legione straniera, 2 rep paracadutisti, nel ’52, tornò via 12 anni dopo. “Era scaduto il contratto di 6 anni +6, funzionava così. Sicché poi andai a Marsiglia (parla molto bene francese) e lì aprii un bar poi tornai in Italia negli anni Sessanta”. Qui comincia la storia dell’uomo che conosce la moglie, infermiera, e va a lavorare in una industria tessile “facendo anche i turni di notte”, continua ad amare le armi e a sparare in un poligono di tiro della zona “ma non quelli militari eh, lì io non ci andavo”.
In effetti di militare, rispetto a quanto asserito finora dai media, mantiene ben poco a sentire lui: “Macché destra eversiva e Gladio, non ho mai avuto contatti con nessun militare o gruppi paramilitari quando sono tornato in Italia. Simpatie, simpatie politiche e nient’altro. E la politica non c’entra nulla nemmeno con il caso del mostro. Casomai si potrebbe cercare, al di là della mente deviata del serial killer, uno solo, nell’ambito religioso. Una sorta di giustiziere contro l’immoralità del sesso”.
Vigilanti è nato a Vicchio, abita a Prato e negli anni Settanta e Ottanta con la sua Lancia Flavia rossa faceva avanti e indietro, anche la notte, per lavoro. Passando anche per Travalle “ma – precisa – non ero io quello che i testimoni hanno visto la notte del delitto dell’81”. E viveva ogni giorno negli stessi luoghi dove abitava il gruppo dei sardi, lo stesso che nella prima fase delle indagini era stato attenzionato dagli inquirenti. E sarebbe stato lui l’uomo riconosciuto dal barista di Vicchio, che nei giorni successivi alla morte di Pia Rontini e del fidanzato dichiarò di aver visto un uomo seguire la ragazza, un uomo con una macchina rossa e con l’anello vistoso. Magari proprio quello della legione straniera. D’altronde, Vigilanti indossa come un segnale di riconoscimento ancora oggi indumenti e accessori legati alla legione.
Una chiacchierata, la nostra con lui, fatta anche di molto silenzio. E di gesti, chiari, della mano in avanti per evitare l’argomento sardi. Così come il nome di Salvatore Vinci. E una limonata, anzi due, che tornano utili quando si vuole cambiare discorso. Quando gli si dice che alcune notizie recenti vorrebbero Vinci ancora vivo, interrompe il discorso quasi incredulo: “E’ ancora vivo?”. Poi tace. Ma sono silenzi ed espressioni che parlano più delle parole.
Però di qualcosa è sicuro: “Potrei dare aiuto per le indagini ma non mi hanno mai ascoltato e non mi ascoltano. Dai tempi del Pacciani, forse perché era il loro mostro ideale”. Ma non vuole parlare oltre: l’enorme attenzione mediatica gli impone ora, quando si arriva a fare domande scomode, di sentire il suo avvocato. E poi, lo ribadisce più volte e forse gli è rimasto dentro anche dopo tutti questi anni, “Il contratto della legione straniera imponeva il silenzio. Se parlavi eri condannato a morte”.
Katiuscia Vaselli
Andrea Ceccherini
Qui potete vedere l’intervista video