Il 21 luglio 1783 nasce, e viene battezzato in Battistero, Giovanni Simoncini, che come fantino sarà conosciuto con il nome di Giannaccio, Gobbo ma, soprattutto, come Belloccio. Corre 8 Carriere, dal 1809 al 1825, e alcuni dicono che sia stata sua la responsabilità della nascita della rivalità tra Chiocciola e Tartuca.
Il Cancelliere del Comune, stilando il resoconto del Palio del 17 agosto 1814, racconta così l’episodio di cui si rese protagonista Belloccio, che in quella carriera correva per il rione di San Marco: “la Tartuca che aveva un buon cavallo (il fantino era Caino) fu trattenuta subito dalla Chiocciola e tenuta ferma per una girata (…) i tartuchini la mattina dopo bruciarono l’arma della Chiocciola (…) suonando le campane a morto”.
Una reazione d’orgoglio forte ma, forse, comprensibile se si pensa all’onta subita. Belloccio della vita subisce vari incidenti: il 15 agosto 1819 cade da cavallo durante una prova del Palio e si ferisce in modo grave tanto da restare zoppo: “alle comprove sulla Piazza Grande per il palio alla tonda, ch’ebbero luogo secondo il consueto, la decorsa mattina, cadde da cavallo nella voltata di San Martino, il fantino della contrada del Leocorno, nominato Giovanni Simoncini di questa città, ammogliato con tre figli, e si produsse la frattura di una gamba presso la fibula inferiore con lussazione dell’osso corrispondente, per cui il chirurgo curante di questo Ospedale, teme dello storpio”.
Comunque sia il fatto non pose fine alla sua carriera paliesca, visto che corre fino all’agosto del 1825, anche se nelle sue sei esperienze in piazza del Campo non trionfa mai. Nel settembre del 1830 Giovanni Simoncini è protagonista di un secondo incidente, questa volta non paliesco: “ieri sera circa le ore 10 vuolendo Giovanni Simoncini prendere parte da mediatore ad una contesa che avea nella Piazza di San Giovanni il facchino Petro Fugi colla di lui moglie, ricevè da quest’ultimo un colpo di coltello in una coscia che sebbene sembrasse nel momento indifferente recatosi allo Spedale fù trovata la ferita che sopra tale da averlo costituito in pericolo di vita, e se qualche rimedio può dettare l’arte onde strapparlo dalla morte, consiste il medesimo in amputargli la coscia”.
di Maura Martellucci e Roberto Cresti