Alle ore 02:00 in punto di cento anni fa, il 24 ottobre 1917, le artiglierie austro-germaniche aprivano il fuoco sulle linee italiane posizionate lungo il fronte dell’Isonzo. Alternate alle granate convenzionali, furono lanciate anche micidiali cariche a gas, che decimarono numerosi reparti. Alle 8:00, nella nebbia e sotto una pioggia battente, seguì l’attacco delle formazioni austro-tedesche che, mettendo in atto nuove tattiche di combattimento, provocarono in tempi rapidissimi il crollo delle difese italiane con uno sfondamento del fronte tra Tolmino e Caporetto. Iniziava la disastrosa disfatta che vide arretrare l’esercito italiano di 150 chilometri, fino al Piave, lasciando nelle mani dei nemici 250.000 prigionieri, 2.300 cannoni e un’infinità di materiale bellico. Alla tristemente nota “rotta di Caporetto” fu presente anche il senese Giovanni Mazzini (nella foto di copertina il primo a destra e, sotto, il primo a sinistra), classe 1898, soldato del 5° reggimento del Genio minatori, 2a compagnia motoristi, 2° plotone.
Giunto al fronte nel giugno dello stesso 1917, il geniere Mazzini aveva già sperimentato gli orrori e le durezze della guerra di trincea, che rammentava spesso ai nipoti: come di quando fu mandato di forza all’assalto – pur non essendo un fante – da un carabiniere con la rivoltella spianata che non volle sentire ragioni. O di quella volta che un novellino appena giunto al fronte, lindo nella sua uniforme pulita e in perfetto ordine, si schifò un po’ per la luridezza del Mazzini, incrostato di fango e sudiciume a causa della lunga permanenza in trincea: il Mazzini, invece di fare il prepotente e invitare la recluta a cambiare di posto, si alzò per andarsi a sedere da un’altra parte; nemmeno il tempo di accomodarsi, un sibilo, un boato, e dove poco prima si trovava il novellino non era rimasto più niente, nemmeno un brandello.
Nanni (come lo chiamavano a Siena) aveva combattuto durante l’estate del ’17 in luoghi entrati nell’epopea della Grande Guerra, sul Monte Podgora, sull’altipiano della Bainsizza, ma in realtà la sua mansione era di manovrare i motori per lo scavo di trincee e gallerie. Prima della guerra lavorava infatti come meccanico presso la ditta Lorenzini, il cui garage era ubicato nell’attuale via Pian d’Ovile. Possessore di una delle prime patenti di guida conseguite a Siena – nel 1916 – venne arruolato nella compagnia automobilisti, ma poi aggregato ai motoristi. Nel momento cruciale dell’offensiva austro-tedesca dell’ottobre ’17 si trovava nella località di Zagora (oggi in territorio sloveno), a gestire l’impianto elettrico della galleria ferroviaria dove era organizzato un importante ospedale da campo.
Quando il fronte italiano crollò, il geniere Mazzini ebbe l’incarico di distruggere il gruppo elettrogeno, perché non cadesse in mano al nemico. Lo schema di distruzione dei congegni se lo portò con sé fino alla fine della guerra, al pari di altri cimeli, nonostante i circa 140 chilometri che dovette percorrere, interamente a piedi, da Zagora alla linea difensiva stabilita sul Piave, dove l’esercito italiano si riorganizzò ai primi di novembre.
La famigerata ritirata avvenne in una situazione di caos generale, costellata da diserzioni e fughe, ma anche da episodi di estremo valore. Stanchi della guerra, vessati da una disciplina che più che rigida si era dimostrata ottusa, frustrati dalle perdite inumane che la conquista di pochi chilometri era fino ad allora costata, molti soldati italiani gettarono le armi abbandonandole al nemico. Molti altri resistettero strenuamente, consentendo al grosso delle truppe di sfuggire all’accerchiamento che avrebbe decretato la sconfitta definitiva dell’Italia.
Il geniere Mazzini il fucile non lo gettò. Semplicemente perché non lo aveva più. Glielo avevano rubato durante la sua prima notte del concentramento truppe in Alta Italia, e mai più gliene dettero un altro. Il geniere Giovanni Mazzini, combatté la Prima Guerra Mondiale con la sola baionetta e forse qualche bomba a mano che riuscì a racimolare, insieme a una rivoltella. Ma la baionetta, sulla cui lama incise i nomi dei luoghi dove aveva combattuto, la riportò fino a casa.
Marciando giorni e giorni lungo strade pazzescamente intasate da uomini, mezzi, animali e profughi, senza mangiare assolutamente nulla, il Mazzini si sentì a un tratto chiamare “Siena! Siena!”, da un concittadino che lo aveva riconosciuto per senese (chissà di quale Contrada era!). L’altro senese lo portò furtivamente dietro una casa di campagna, e gli offrì un pomodoro dei due che, miracolosamente, era riuscito a rimediare nella desolazione generale. Ma il mio nonno Nanni, digiuno da giorni, non volle mangiare quel dono divino, perché da ragazzo i pomodori non gli piacevano! Negli altri 70 anni di vita non smise mai di pentirsi per quel gesto scellerato. E i pomodori li mangiò con gusto da dopo la guerra in poi.
Nonostante la fame e le privazioni, Nanni Mazzini giunse illeso al Piave. Vide la fine vittoriosa della guerra e diventò Cavaliere di Vittorio Veneto. Ma questa è un’altra storia.
Giovanni Mazzini
(nipote di Giovanni Mazzini)