Il 3 ottobre, a Castellina in Chianti, nasce Alessandro Falassi (l’anno non importa, lui non l’ha mai scritto, forse non amava dirlo, quindi non lo facciamo nemmeno noi, per sicurezza).
Compie studi politici ma dopo una borsa di studio ed un soggiorno in California inizia ad interessarsi all’antropologia (americana, che aveva un approccio diverso dagli studi che al tempo si facevano in Italia) che sarà, per sempre, la sua passione. Falassi inizia a costruire la sua dimensione di antropologo sia nelle aule di Berkeley, sia facendo pratica sul campo, a contatto con le realtà studiate. I suoi amici ben conoscono (tra i molti) l’episodio in cui ad Alessandro (perché, ebbene sì, avevamo l’onore di essergli amici), in visita in una sperduta comunità, viene servita “focaccia dell’amicizia”.
Il capovillaggio gli dice che è una specie di rito di accettazione dello straniero e rifiutare sarebbe stata un’offesa: nonostante gli “animaletti” strani che uscivano da quella focaccia, lui ne mangiò con coraggio un pezzetto anche se gli rimase sempre il dubbio di essere stato “gabbato”.
In America aveva stretto amicizia (oltre che comunanza scientifica) con un grande dell’antropologia d’Oltreoceano, Alan Dundes, lo studioso che per primo era riuscito a far entrare il folklore come materia di insegnamento in un’università statunitense. Con lui Falassi aveva sviluppato l’analisi di una cosa che non gli era mai uscita dal cuore: il Palio. Perché anche se per anni aveva alternato un semestre in America e uno in Italia, Siena, il Palio, il suo Istrice (del quale è stato anche Priore) erano sempre nel cuore. Alla metà degli anni Settanta il sodalizio fra i due studiosi produsse “La terra in Piazza. An interpretation of the Palio of Siena“.
L’analisi della manifestazione senese, per la prima volta, conosceva il rigore dell’approccio antropologico: se ne parlava in termini di sentimento condiviso e peculiare, ma, per farlo, si ricorreva agli strumenti delle scienze sociali e della stessa psicanalisi. Le sue analisi sul Palio, sulla Contrada, sul rito continuarono poi a caratterizzare la sua produzione: “Time out of time. Essays on the festival”, del 1987, è un cardine della riflessione folklorica sull’essenza antropologica della festa; “Les fêtes du soileil. Celebration of the mediterranean regions”, del 2001, ebbe la prefazione di José Saramago.
Ricordiamo qui, tra le moltissime pubblicazioni, almeno “La Santa dell’Oca”, dedicato a Santa Caterina che studia, ricostruendone la biografia, con un approccio sempre antropologico e psicologico; un punto di vista nuovo che, tuttavia, esalda la straordinaria vicenda di questa donna unica con la quale un intero rione, quello di Fontebranda, come dice Falassi, si identifica. Ma i filoni di ricerca sviluppati da Alessandro sono davvero molti, e tra questi, per motivi anche personali, non possiamo non parlare di quelli dedicati al cibo. Aveva una caratteristica, Alessandro: era un accademico anomalo.
Professore all‘Università per Stranieri, conosciuto in tutto il mondo, non si negava mai a chi gli chiedeva collaborazione per divulgare il suo sapere. A noi, all’Orto de’ Pecci, ha “regalato” più di una cena a tema (da lui suggerita e speso realizzata con la collaborazione di un maestro della cucina come Pierluigi Stiaccini): le cene dedicate al cinema e ai divi di Hollywood; i primi che hanno fatto l’Italia; i piatti prediletti da Garibaldi e quelli legati alla biografia del suo musicista più amato: Gioacchino Rossini.
Serate indimenticabili che, ripeto, ci ha regalato perché era il suo modo per dirci che capiva il nostro scopo sociale, era il suo modo di aiutarci a farci conoscere e a diffondere la mission della cooperativa La Proposta: aiutare gli altri. E Alessandro, quando c’era da aiutare gli altri non si negava mai. Mangia d’Oro, nel 1991, Alessandro, dal 19 febbraio del 2014, ha lasciato un grande vuoto che a livello culturale cittadino si sente forte.
di Maura Martellucci e Roberto Cresti