Il 30 settembre 1999 chiude definitivamente le sue porte l’ospedale psichiatrico di San Niccolò, anche se la riforma Basaglia, che determina la fine dei manicomi risale a quasi vent’anni prima (la Legge 180 è del 13 maggio 1978).
Il San Niccolò di Siena è stato una delle più importanti istituzioni sanitarie per l’intero comprensorio toscano, inteso quale bacino di accoglienza dei malati di mente provenienti da altre città, quali Grosseto, Arezzo, Livorno, Pisa e perfino Roma, Perugia. Era stato inaugurato il 6 dicembre 1818 (festa di San Niccolò), fondato dopo la soppressione del convento omonimo, per intercessione della Compagnia dei Disciplinati che si occupava dei “poveri pazzi”.
L’edificio, diviso in due sezioni: le gravide occulte e per i tignosi da un lato e i dementi dall’altro, all’apertura ospitava 34 malati. La Confraternita dei Disciplinati, la più antica compagnia laicale posta nei sotterranei del Santa Maria della Scala, dedita per vocazione alle opere pie, nel momento in cui fu riformata dal granduca di Toscana in Società di Esecutori di Pie Disposizioni (1870), per volontà dello stesso granduca ottenne di dar vita ad un nuovo, grande, ricovero per malati mentali nell’ex monastero di San Niccolò.
Le Pie Disposizioni mantennero sempre il potere amministrativo-finanziario sul San Niccolò che controllavano tramite una deputazione di quattro “confratelli”, ai quali doveva sottostare anche il medico, mentre la nomina del direttore spettava alla Deputazione della Compagnia dei Disciplinati.
Il primo direttore fu Giuseppe Lodoli, docente di Medicina Pratica e Clinica nell’Ateneo senese, che tentò di introdurre in psichiatria una nuova metodologia terapeutica, in contrasto con i criteri repressivi adottati fino a quel momento nei confronti dei malati di mente. Il padre, Angelo Lodoli, maestro di Chirurgia al Santa Maria della Scala, si battè a lungo, per un ampliamento dell’istituto per pazzerelli di Via San Marco definendolo per primo “Spedaletto” invece di “carceri”, come comunemente venivano chiamate quelle stanze destinate agli alienati. Decisiva in tal senso fu la figura di Carlo Livi (direttore del San Niccolò dal 1858 al 1873) che guardò alla pazzia come una qualsiasi malattia da affidare alle cure di un medico specialista, e al pazzo non come essere da emarginare ma come uomo da curare, anche in vista di un reinserimento nella società.
Convinto assertore della disciplina del lavoro quale mezzo di recupero dei malati di mente, Livi voleva trasformare il San Niccolò in un villaggio strutturato in padiglioni destinati allo svolgimento di lavori diversi che andavano dalla cucitura alla falegnameria, dalla lavorazione della paglia alla lavanderia, dai laboratori di calzolai e fabbri, non tralasciando nemmeno terreni destinati all’agricoltura (una molteplicità di occupazioni affinchè ogni paziente potesse ritrovare una tipologia di lavoro a lui familiare prima del ricovero e potersi così “riallacciare” alla realtà).
Queste occupazioni sarebbero servite, oltre che allo scopo terapeutico, anche a rendere l’istituto autonomo dalle risorse finanziarie delle Pie Disposizioni, istituzione con la quale, nel corso del tempo, entrerà, per questo motivo, in rotta di collisione. Un percorso attraverso la diversa percezione della pazzia, quindi, e attraverso la nascita di una nuova disciplina medica, la psichiatria, grazie alla quale, con il XIX secolo, si attuerà un cambiamento di concezione: il folle è un malato non un criminale e, per questo, l’ospedale psichiatrico diviene sempre più luogo di cura e non più luogo di controllo.
Nel corso dell’Ottocento l’ospedale psichiatrico senese si trasforma in villaggio manicomiale, e diverrà talmente vasto (si estende su un’area di oltre 183.000 mq. e la superficie edificata supera i 15.000 mq.) che, nel momento di massimo sviluppo (1935), sarà in grado di ospitare oltre duemila pazienti.
Un mondo a sé progettato dai più grandi architetti del tempo: Agostino Fantastici, Alessandro e Lorenzo Doveri, Giulio Rossi, Cesare Neri e Pietro Carucci, Francesco Azzurri. Un nome, solo per soffermarsi su quest’ultimo, legato strettamente a quella che potremmo definire “architettura manicomiale”. Azzurri, in effetti, quando arrivò a Siena aveva già iniziato la riorganizzazione del manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma, un incarico durante il quale attuò appieno le teorie innovative dei “manicomi villaggio”, luoghi che, sull’esempio della città belga di Ghèel (Azzurri aveva viaggiato a lungo in Europa per visitare i più moderni stabilimenti di cura per folli), non fossero solo strumenti di reclusione bensì luoghi dove poter vivere in maniera dignitosa.
A Roma vennero progettati così diversi reparti, che Azzurri chiamò quartieri, riservati ai tranquilli, ai sudici, agli agitati e furiosi, secondo la classificazione adottata nel manicomio romano nel 1864. A sé stanti erano gli ambienti in cui gli internati potevano svolgere attività di lavoro artigianali e agricole. Anche a Siena, del resto, questa idea rivoluzionaria trovò piena attuazione diventando, il San Niccolò, un universo chiuso fatto in tanti edifici distinti e con funzioni determinate (non solo laboratori di lavoro, ma reparti diversi a seconda delle patologie e delle possibilità economiche dei ricoverati, oltre a fabbricati adibiti ai vari servizi quali la farmacia o la cucina); una tipologia, questa, fortemente voluta da Livi (lo scontro per la sua idea di manicomio con la Società di Pie Disposizioni ne determinerà le dimissioni, dopo le quali, nel 1874, andrà a dirigere l’ospedale di Sal lazzaro a Reggio Emilia) e poi portata avanti dai suoi allievi Palmerini e Funaioli.
Eppure, paradossalmente, all’inizio Livi osteggiò la nomina di Azzurri che aveva presentato, in un primo momento, un progetto per lui ancora troppo accentrato nelle varie funzioni e poco rispondente alle sue idee. Sarà poi proprio Azzurri, in realtà, a far nascere a Siena il modello di manicomio parcellizzato di cui Livi era stato un incompreso promotore.
di Maura Martellucci e Roberto Cresti