Il 5 marzo del 1570 Cosimo I de’ Medici, forzando (diciamolo) la mano a Papa Pio V, viene incoronato a Roma Granduca di Toscana. Che c’entra con Siena? C’entra e ci sta largo. Dopo la fine dell’assedio e dopo che Siena era scesa a patti con l’impero Cosimo voleva lo stato Senese perchè ampio e perchè lo avrebbe portato a governare quasi tutta la Toscana.
Del resto egli vantava un credito di due milioni di scudi (una cifra da capogiro) nei confronti di Filippo, per cui nel “o paghi o mi dai Siena”, il 3 luglio 1557 Cosimo otteneva la sub infeudazione della nostra città. Il passo successivo, per l’intelligente Cosimo I, fu quello di “defiorentinizzare” ostentatamente la sua sovranità: con l’acquisizione di Siena egli poteva superare il titolo (comunque avvertito come fortemente municipale e limitativo di fronte al concerto delle nazioni e delle corone europee) di “Duca di Firenze” per ambire a quello di sovrano regionale. Il passaggio non fu nemmeno privo di ben studiate sponde culturali e di complesse manovre diplomatiche. Nel tentativo di affrancarsi dallo status di feudatario dell’Imperatore e di garantirsi l’indipendenza politica, Cosimo, non sfondando, su questo tema, con l’imperatore, si rivolse al Papa, cercando di ottenere da Paolo IV il titolo di re o, quanto meno, di Arciduca. Con Paolo IV non la sfangò, dovette attendere il successore.
Pio V con una bolla solennemente letta a Firenze in palazzo Ducale da Giovanbattista Concini, gli concesse, alla fine del 1569, il titolo di Granduca. Al conferimento, seguì la solenne incoronazione il successivo 5 marzo.
Il gesto non passò senza conseguenze e le grandi potenze europee reagirono ma proprio il Pontefice difese Cosimo rivendicando il diritto dei vicari di Pietro a conferire la dignità regale ab antiquo, fin dal tempo di Carlo Magno. E con Siena?
Per Cosimo, ormai granduca di Toscana, l’intitolazione sarà duplice e distinta: non duca di Firenze e Siena, ma duca di Firenze e duca di Siena. Che è cosa del tutto (anche giuridicamente) differente. La Corona di Spagna si teneva la costa tirrenica (i presidios), il resto del Senese andava ad aggiungersi (ma ben distinto fino all’avvento dei Lorena a metà del Settecento) come Stato Nuovo a quello fiorentino (Stato Vecchio). Cosimo non era uno sprovveduto: sapeva distinguere fra vincere e stravincere, e a stravincere, con Siena, ci rinunciò. Prelevò denaro dalle imposizioni fiscali che gravavano sul territorio fiorentino per risollevare le sorti di quello, malandato, senese; invitò i senesi che si trovavano in Toscana o in altre parti d’Italia a tornare in patria (non rientrò quasi nessuno); si riservò di nominare il Capitano del Popolo e i Gonfalonieri dei Terzi, ma lasciò le designazioni per le altre cariche ai senesi.
Questi ultimi, reduci dai precedenti decenni di governi liberi ma fragilissimi, minati alla base dalla congenita, irreconciliabile rissosità fra le fazioni (i Monti), poterono acquietarsi nella sensazione (peraltro non illusoria) di un governo che, adesso, bene o male, almeno funzionava. In tutta questa “rivoluzione” che cambiò lo scacchiere toscano, un ambasciatore veneziano, Vincenzo Fedeli, nel 1561 osserva che i senesi dichiarano che non potrebbero tollerare, “né tollerarieno mai” di considerarsi sottomessi a Firenze, “ma che, con la casa de’ Medici non avendo mai avuto inimicizia sopportano d’essere da quella governati” e soprattutto “perché a quella vedono medesimamente sottoposti i fiorentini”.
Piegati dalla fame e costretti a patti sì; confederati sì.
Sottomessi mai.
Maura Martellucci
Roberto Cresti