Si è inaugurata venerdì 1 aprile negli splendidi locali che costituivano in tempi passati l’alloggio del Rettore del convitto Tolomei, all’interno del complesso del Liceo E. S. Piccolomini, la mostra ‘Preludio – volti forme spazi colori della pittura di Mario Ghezzi‘. L’intento degli organizzatori, tra cui oltre la famiglia di Ghezzi si conta anche l’associazione culturale Il Liceone, è quello di muovere con questa esposizione un primo passo nell’opera di rilancio e di conoscenza di questo talento senese del Novecento noto a pochi. La poca conoscenza del lavoro di Ghezzi è dovuta non tanto ad una scarsa qualità della sua produzione quanto, forse, al fatto che lui per primo non ha mai “promosso” i suoi sforzi per via di un carattere schivo e nello stesso tempo orgoglioso. Eppure Ghezzi ha saputo per qualcuno innovare prima di altri e smuovere, con la sua pittura d’avanguardia, l’ambiente artistico senese.
Può anche darsi che le mie parole possano sembrare un po’ esagerate e allora, io che non sono un addetto ai lavori, per sostenere le mie tesi, devo ripartire dalla fine degli anni cinquanta e raccontarvi una storia.
Il grande critico non aveva nessuna voglia di fare quella visita in quel pomeriggio di aprile. Lui era già molto conosciuto, pieno d’impegni e con tante cose da fare e aveva ormai da tempo imparato a rifiutare quel tipo di incontri che in una città piccola come Siena potevano capitare. Conoscendo la sua fama e come una sua parola potesse decretare il successo o l’insuccesso, molti aspiranti pittori, artigiani, dilettanti di ogni tipo gli chiedevano di visionare il loro lavoro e spesso si trovava di fronte, appunto, a degli assoluti dilettanti senza arte né parte. E per lui che era, per carattere, una persona mite e educata diventava poi difficile essere chiaro e diretto fino in fondo, sconsigliando o moderando velleità fuori luogo. Con questi pensieri si avviava fuori di Porta Romana per andare a trovare un altro di questi presunti artisti che aveva insistito perché gli desse un parere sui suoi quadri. A lui, davvero, non aveva potuto dire di no per una serie di ragioni. La prima era che quella persona era il suo medico curante, la seconda che per di più, proprio quel medico lo aveva curato con prontezza e bene in un momento delicato per il suo cuore un po’ ballerino. Aveva cioè verso di lui un vincolo di riconoscenza che non gli aveva permesso di declinare, magari con gentilezza, quell’invito pressante. Sperava solo di fare svelto e di non dover infrangere sogni e orgogli eccessivi.
E invece inaspettatamente si trovò di fronte a qualcosa che lo colpì in maniera profonda, tanto che solo qualche anno dopo, facendo la presentazione ad una delle prime importanti mostre di quel pittore che esponeva a Venezia (Galleria del Cavallino – 1 / 10 ottobre 1963), così scriveva: “quello che mi colpì quando mi mise al corrente di questa sua allora segretissima passione fu l’accorgermi che egli non aveva affatto cominciato da dilettante, né, tanto meno, come tale l’andava coltivando: il che appariva subito evidente non soltanto nel reciso rifiuto di quel repertorio e di quei convenzionalismi espressivi caratteristici, in più o meno larga misura, a tutti coloro per i quali l’esercizio dell’arte è più appagamento che ricerca, ma nello stesso strenuo impegno con cui egli, pur attingendo dalla realtà le occasioni ed i soggetti dei suoi quadri, mirava a riviverla in termini di pura emozione pittorica, cercando di crearsi un linguaggio che, piuttosto che dipendere dalle cose, fosse l’espressione diretta e immediata dell’animo suo, di una profonda e convinta interiorità.”
Quella sera, secondo il suo stile sobrio, l’incontro non terminò con lodi sperticate, sapeva per esperienza che, a volte, certi talenti si perdono per la strada, ma certo incoraggiò in qualche modo la ricerca ed il lavoro di quello strano pittore. Lo fece in maniera indiretta parlando con la moglie che, con il suo fare mite e discreto, assisteva a quell’incontro. Le disse: “signora, lasci che suo marito lavori in pace, non lo intralci in questa passione perché può diventare qualcosa di più importante”. E lo fece anche direttamente verso di lui affermando che avrebbe seguito, “sorvegliato” – disse, il suo lavoro e che non avrebbe lesinato consigli e incoraggiamenti.
Così prese forza la carriera artistica di Mario Ghezzi che cominciò un suo lungo e personale tragitto tra le tele e i pennelli con cui spesso passava le notti, mentre i suoi giorni erano, come sempre, dedicati a auscultare cuori, palpare addomi, picchiettare su toraci di giovani e vecchi.
Ah…quasi dimenticavo, quel critico era Enzo Carli, già molto affermato in quegli anni, e poi diventato uno tra i massimi esperti dell’arte senese al cui recupero e valorizzazione ha dedicato la vita.
Oggi che Ghezzi non c’è più, ormai da quasi un decennio, la famiglia ha deciso di rompere il riserbo che lui stesso aveva, con il suo carattere, imposto sul suo lungo lavoro e di far conoscere in maniera più completa le sue opere che non sono solo e soltanto il Palio del Luglio 1981 o la vetrata di San Domenico.
La piccola mostra allestita nei locali dell’ex collegio Tolomei vuole essere pertanto, come dice il titolo, un preludio a una visuale più vasta e complessiva del suo talento.
Speriamo di riuscire, con l’aiuto di tanti, in questo compito.
Andrea Friscelli
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