“May-Day” inteso come un segnale di allarme, un senso di smarrimento, un’immediata richiesta di aiuto ma anche un “May–Day” che richiama ad un giorno di maggio simbolo di vita, di rinascita e di una straordinaria invocazione alla vita. Se è vero che l’arte deve saper mandare segnali forti al genere umano allora la mostra dell’artista grossetano Fabio Capoccia, intitolata “May-Day” ed allestita nel salone d’ingresso del Complesso di San Niccolò a Siena assolve a pieno la funzione comunicativa ed espressiva dell’arte.
Sono un totale di 20 tavole dove l’artista ha voluto concentrare il suo ossimoro esistenziale. Nelle sue opere realizzate con tecnica mista, gessetti colorati e graffio, Capoccia è stato catturato da due importanti temi (le Barbarie e le Periferie), Leitmotiv che ricorrono incessantemente in quello che è il personale percorso artistico. Oli su tela che parlano di “barbarie” intese come l’estremo senso dell’abbrutimento dell’animo umano, di cui il mondo pullula di esempi, fino a trasformare in arte quello che Pasolini definiva “il genocidio antropologico”. L’artista ha voluto portare al San Niccolò la sua inquietudine dinanzi allo stato primitivo dell’uomo, denunciando le barbarie moderne, nel senso più amplio della loro definizione. Con gessetti e colore ha puntato il dito contro le guerre, la morte, le distruzioni, gli attentati terroristici, gli abbandoni, sottoponendo ad un giudizio profondamente critico il tema contemporaneo dell’alienazione.
Prendendo in considerazione le grandi metropoli americane (c’è anche Napoli con Scampia) ha voluto poi portare a Siena l’importante tema delle “Periferie” dove, anche qui, i confini sono andati sfumando e il concetto di marginalità, suggerito da quest’ultimo tema, si è poi esteso ad ulteriori ambiti umani, come la mente. Nel pieno della naufragio emotivo l’artista però ritrova la vita grazie al colore,e il “may day” tradotto dall’inglese all’italiano come “Giorno di Maggio” dunque volta faccia e torna ad essere fioritura, nascita e speranza.
Un gioco di parole che punta l’ago della bussola anche sul vasto tema della speranza verso un mondo che è in grado di cambiare, sicuramente di migliorare.
Sia nell’accezione positiva che negativa del termine, il luogo che è stato scelto per l’esposizione non è affatto scontato. “Portare le mie opere al San Niccolò – afferma l’artista – è stato come un ritorno alle origini perché è qui che ho concluso i miei studi universitari in Lettere ed è questo un simbolo di rinascita culturale”. Laddove c’era un manicomio – una delle tante facce dell’abbrutimento umano denunciate dal giovane artista – oggi ragazzi si danno appuntamento con la filosofia, l’antropologia, l’ingegneria e altre scienze, esempio lampante di come dalle ceneri tutto può rinascere, perché niente muore laddove vive la cultura.
Nicola Ciuffoletti
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