Per chi abita in collina il cielo è uno spazio limitato, relativamente piccolo. L’orizzonte è per noi “collinari”, più che il punto dove finisce la volta celeste, la linea ondulata delle nostre dune di terra, che magari si trasformano in monti. Forse per questa inconsapevolezza della grandezza di ciò che sta sopra di noi, siamo persone attaccate a ciò che sta sotto di noi, alle radici, ai pavimenti. A Siena, però, ci sono alcuni posti, pochi, dove è possibile rendersi conto di ciò che va oltre il nostro, seppur bello, limitato orizzonte. Uno è il Facciatone di quello che doveva essere il Duomo nuovo della città. Incompiuto a causa delle pestilenze che afflissero la città nel XIV secolo resta lì, monito di speranze e di paure. Speranze di grandezza, di magnificenza; paure di inadeguatezza per l’essere grandi, di non controllare eventi più forti della volontà. Il Facciatone è sì incompiuto, ma quello che resta, la maceria, è già sufficiente per meravigliare. Ciò che è incompiuto non è ma può essere. La stessa bellezza dell’incompiutezza la trovi nelle fasi di trasformazione del giorno, quando lentamente si passa dal giorno alla notte o dalla notte al giorno.
Prima Lux, si chiama così l’iniziativa promossa dall’Opera della Metropolitana con l’organizzazione di Opera – Civita Group che permette di vivere l’alba sul Facciatone. Il nome è dovuto alla luce del primo mattino, quella che risveglia. Proprio nel passaggio dalla notte al giorno, salendo le scale a spirale che portano dal Museo dell’Opera al Facciatone, ti trovi in una specie di gestazione prenatale, di attesa labirintica. Quando spunti fuori aumentano le vertigini e non puoi che appoggiarti al basso parapetto. Intorno ci sono solo le luci, fra il blu e l’arancio, di una città che dorme. Un rumore solo arriva all’orecchio ed è il cinguettio degli uccelli notturni. Man mano che salirà l’alba questo suono si affievolirà. Con lo sguardo cerchi il conosciuto e non puoi non notare a sud la Torre del Mangia e i Servi e a nord il Duomo, lì a due passi, e un “ciuffo” di San Domenico. Quello che incuriosisce è a est, perché dal Facciatone noti una contiguità fra la Basilica di San Francesco e la Chiesa di Provenzano che non avevi mai calcolato. Quando inizia a schiarire e a farsi giorno aumenta la capacità di vedere lontano e individui nelle campagne fuori dalle mura curiosi batuffoli di nebbia. Ti accorgi solo allora come il cielo sopra Siena possa essere ampio e non costretto come ci appare dal basso. C’è tutto tranne l’oro del Sole, quello no, si nega. Quasi ci dicesse di non volere troppo, di non essere troppo famelici. Abbiamo avuto già la fortuna di aver capito quali siano i reali confini del cielo, non possiamo volere anche essere benedetti dalla prima luce diretta. Giusto così; forse i costruttori del Facciatone non ebbero lo stesso favore di veder posto un limite alla propria ambizione.
Il Sole alla fine si mostra, liberatosi dalle nuvole. Ci ha negato solo l’aurora, quando il rosso diventa oro. I due colori li ritroveremo poi sul nostro percorso, nelle cromie usate da Duccio di Buoninsegna nella sua Maestà o nei racconti sulle prediche all’alba di San Bernardino. Non è un caso che il frate facesse suonare per le adunate una campana chiamata “Preziosa” o “Aurora”. Forse entrambi erano alla ricerca del volto dell’arcangelo Uriel, il cui nome vuol dire “Luce di Dio” in ebraico. Il nome di questo angelo che sa di antico, sconosciuto ai più, spunta tra le parole della storica dell’arte Francesca Fumi Cambi Gado, che propone una delle mille possibili letture del capolavoro di Duccio. L’artista senese e il predicatore vengono accostati in questo percorso di Prima Lux, accomunati dalla ricerca sulla luce, artistica per uno e spirituale per l’altro. Per poterlo fare avranno di certo volto gli occhi a ciò che stava sopra di loro. In fondo erano uomini, come chi progettò il Facciatone e come noi. Uomini che dovrebbero avere la consapevolezza che conoscere i confini del cielo non vuole dire saperne costruire uno nuovo.
Emilio Mariotti
Foto di copertina di Niccolò Semplici
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