Aspettando Natale: la tradizione dell’albero e del Presepio

Aspettando Natale, quarta puntata della rubrica curata dal professor Duccio Balestracci. Stavolta ci si immerge tra abeti pagani e natività di fantasia

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Lo avete già fatto l’albero di Natale? Se non lo avete ancora fatto spicciatevi perché ci stiamo avvicinando al giorno fatidico. Nel Milanese, per dire, li hanno già addobbati a partire da Sant’Ambrogio (il 7 dicembre), mentre a Sud, in Puglia, gli alberi hanno già cominciato a caricarsi di ninnoli dalla festa di San Nicola.
In altre località è l’8 dicembre (l’Immacolata) a segnare la data di inizio del trafanìo che fa tirare fuori dai ripostigli palline, ammennicoli vari e circuiti di lucine che regolarmente avete riposto, l’anno scorso, alla rinfusa in un intrigo pauroso.
Pressoché in tutte le case, insomma, stanno entrando gli abeti natalizi che, secondo la tradizione, dovrebbero essere i noti abeti rossi, la picea albies, detta da noi peccio (per capirsi, quel tipo di albero che dà, quasi sicuramente, il nome al nostro senese Orto de’ Pecci). Insomma, un’icona, senza la quale Natale non sarebbe Natale.
E pensare che in Italia, prima della fine dell’Ottocento, di questo simbolo della Grande Festa quasi non se ne conosceva l’esistenza.
L’albero di Natale, infatti, nasce in altri contesti: quelli nordici, celtici e vichinghi, culture nelle quali in occasione del solstizio d’inverno si affidava ad alberi come l’abete o il tasso (sempreverdi, che non perdono mai le foglie, cioè: che non muoiono mai) il messaggio di speranza di veder risorgere il verde della natura. Nella cultura germanica, non a caso, era sotto l’abete che, secondo la tradizione popolare, venivano lasciati i neonati (no: non quelli abbandonati. E’ l’equivalente del nostro cavolo sotto il quale la cicogna lascia i bambini). Così, l’albero dell’inverno veniva addobbato, lo si onorava, gli si attribuiva un potere sacrale. I greci, per parte loro, avevano una credenza che presenta talune analogie con quanto appena detto, perché consideravano l’abete albero sacro di Artemide (protettrice delle nascite e, come già abbiamo visto, significativamente dea della luce) e rendevano onore alla dea e al suo albero proprio all’inizio del nuovo anno, con un messaggio, ancora una volta, di speranza di rinascita della natura.
Anche il mondo romano, per la verità, all’inizio del mese di gennaio faceva qualche cosa di simile, ma in questo caso il messaggio di rinascita era commesso ad un altro albero sempreverde: il pino.

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Il Cristianesimo guardò con sospetto a questi culti: contro gli alberi sacri si scatenò, per così dire, la “crociata” degli ecclesiastici, tutti tesi a sradicare dalla testa della gente quei retaggi di paganesimo. Papi ed ecclesiastici tuonarono contro queste pratiche sacrali; Martino (c.a 520-c.a 580), vescovo della diocesi portoghese di Braga, nell’opera in cui confuta le superstizioni (De correctione rusticorum), per dirne uno, ci va giù duro contro chi adora le pietre, le fonti e, appunto, gli alberi.
Per contrastare il culto dell’abete e per domesticarlo cristianizzandolo, la Chiesa promosse l’icona dell’agrifoglio (altra essenza verde che ancor oggi fa parte integrante della scenografia natalizia) presentandolo come metafora della corona di spine di Cristo e identificando nelle bacche rosse il simbolo delle gocce di sangue sulla testa di Gesù martirizzato. L’albero (in generale, non solo l’abete nordico e il tasso celtico), alla fine, fu depotenziato del suo contenuto pagano e, diciamo così, riabilitato assimilandolo alla figura del Cristo, “albero cosmico” della vita e della resurrezione.

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L’uso dell’albero natalizio è, dunque, praticamente tutto nordico e, infatti, non è un caso che siano le città dell’area baltico-germanica a contendersi il primato del primo albero eretto in una piazza per le festività di fine anno: gli estoni di Tallin si richiamano ad una testimonianza che risale addirittura al 1441; i tedeschi di Brema ricordano che nel 1570 un abete, durante il periodo festivo, veniva decorato e accessoriato di frutta secca e mele; i lèttoni di Riga giurano che l’albero più antico è il loro, preparato, secondo i documenti, già dal capodanno del 1510.
Non stupisce, dunque, vedere l’uso dell’abete natalizio dilagare nel mondo settentrionale fra Sei e Settecento, ma nel resto dell’Europa l’uso arriva molto tardi e, non casualmente, importato dai tedeschi. Sono loro a introdurlo in Austria dove l’albero compare per la prima volta, a quanto se ne sa, nel 1816 (giusto due secoli fa), e in Inghilterra, a metà dell’Ottocento, ve lo fa conoscere Alberto di Sassonia Coburgo Gotha, tedesco, principe consorte della regina Vittoria. Anche in Francia esistono alberi di Natale nel Seicento, ma solo nell’Alsazia protestante: nel resto del paese si diffondono solo dal 1840 e, guarda caso, introdotti dalla duchessa d’Orléans, anch’essa tedesca.
In Italia è la regina Margherita a farlo innalzare per la prima volta nel palazzo reale del Quirinale a Roma. E nemmeno questo fatto è casuale: Margherita era amica intima di Federico III di Prussia, aveva una ammirazione sconfinata per la cultura ed il mondo tedeschi (le si attribuisce la frase “In Italia tutti comandano, in Germania tutti obbediscono”) e fu una strenua fautrice dell’adesione dell’Italia all’alleanza già esistente fra impero austroungarico e impero tedesco, formalizzata nel 1882 (quella che si sarebbe chiamata la Triplice Alleanza, in contrapposizione alla Triplice Intesa fra Gran Bretagna, Francia e Russia).
Se tutta questa storia dell’albero di Natale vi ha lasciato in bocca un gusto di “forestiero”, consolatevi con l’altra icona del Natale: il presepio. Perché questo è davvero tutto italiano (forse!). Lo “inventa” – come vuole la tradizione – San Francesco, quando, nel 1223, a Greccio (oggi in provincia di Rieti, nel Lazio), ricostruisce la scena della Natività, portando davanti ad una greppia piena di fieno un bue e un asino. Niente altro che questo; non c’è la Madonna, non c’è Giuseppe. Non c’è nemmeno Gesù, anche se i biografi di Francesco scrivono che, mentre si celebra la Messa, nella mangiatoia compare miracolosamente proprio il Bambino.

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Per la verità, senza nulla togliere alla ormai consolidata fama di “primo presepio” (ma attenzione: i francesi sostengono che questa ricostruzione è nata in Provenza nel ‘200 e che Francesco – di madre provenzale, ve lo ricordate? Lui si chiamava Giovanni. Erano gli amici che, per la sua ascendenza, lo chiamavano “il francesco”- ha semplicemente applicato in Italia un modello che conosceva, ma che italiano non era); il primo presepio, si diceva, è più simile ad una delle sacre rappresentazioni che, da tempo, si mettevano in scena intorno al tema della Natività, piuttosto che al presepio quale lo intendiamo noi. Perché le origini di quest’ultimo, ad essere rigorosi, vanno ricercate, più che nella legenda francescana, nelle raffigurazioni plastiche medievali. Il più antico presepio conosciuto, composto da figure, è probabilmente quello di Arnolfo di Cambio, realizzato nel 1289 per Santa Maria Maggiore in Roma (una chiesa in cui la tradizione vuole che papa Sisto III avesse fatto realizzare una grotta della Natività negli anni Trenta del V secolo), ma gli vengono subito dietro altri, importanti, come quello di Santo Stefano in Bologna, opera della fine del ‘200.

Dalle chiese i presepi escono per diventare installazioni (si direbbe oggi) popolari e trovano casa in talune città che sono diventate patrie di elezione del presepio italiano come, fra le altre, Napoli, Bologna o Genova.
E’ bene che sia chiaro un fatto: quando costruite un presepe non state seguendo i vangeli canonici. In nessuno dei quattro libri del Nuovo Testamento, infatti, c’è traccia di capanna, grotta, bue, asino. Si trovano nei vangeli apocrifi, quelli che la Chiesa ha rifiutato, nei quali si estrapola una profezia veterotestamentaria di Isaia (che peraltro non si riferisce per niente a Cristo) in cui compaiono le figure del bue e dell’asino. Per l’apocrifo di Giacomo, con il bue si identificano gli ebrei e con l’asino i pagani destinati, gli uni e gli altri, a riconoscere l’unicità divina del Cristo. Sulla grotta diremo in altra occasione: per ora limitatevi a prendere atto che nessun evangelista “ufficiale” ne parla e che quindi è verosimilmente (come la capanna) una superfetazione alla vita di Gesù.
Il nostro presepio, però, attinge proprio da queste superfetazioni: lo fa il presepe napoletano (che è il solo a rendere onore al tempo ciclico, di cui abbiamo già detto, nel quale le cose non si evocano né si celebrano ma “rinascono” realmente. Quando i napoletani mettono nel presepio statuine di persone della nostra contemporaneità, hanno ragione: il 25 dicembre non è la rievocazione della nascita di Gesù, ma è Gesù che rinasce realmente. E allora, di necessità, si imbatte nei personaggi del nostro tempo); lo fa il presepio bolognese e lo fanno quelli marchigiani, pugliesi, siciliani e così via. Da qui, una serie di figure che si rincorrono, uguali o analoghe, da un presepio all’altro e che, inconsapevolmente, mettiamo anche in quello di casa nostra. Sicuramente in molti vostri presepi c’è la statuina del pastore che dorme. Non è casuale: la si trova nel presepio napoletano (ha anche un nome, Benino), e in quelli bolognese (il Dormiglione) e siciliano (Susi Pasturi) ed ha un senso importante, perché tutta la scenografia presepiale è costruita come frutto del sogno di questo pastorello. Non ve lo immaginavate eh? Ce ne sono altre, di figure che probabilmente avete anche nei presepi di casa vostra: il pescatore, il vinaio, la zingara, i venditori di merci varie, il cacciatore, il vecchietto davanti al fuoco… Sono tutte figure che derivano dai presepi popolari antichi e ciascuna ha un significato o costituisce una metafora (la zingara è la trasposizione popolare delle figure dei profeti che annunciano la nascita di Gesù; il pescatore è San Pietro o, in alternativa, il simbolo del mese di dicembre; i venditori sono abbinati, in base a ciò che vendono, ciascuno ad un mese e ricapitolano il ciclo dell’anno; il vecchietto che si scalda è l’annuncio dell’arrivo del mese di gennaio, e così via).
Il presepio storico ha i suoi grandi nomi di artigiani e altri virtuosi dell’arte plastica che si applicarono a questa ricostruzione e realizzarono veri e propri capolavori artistici. Maestro Pietru de li Cristi (come avevano soprannominato il leccese Pietro Surgente, che visse fra il 1742 e il 1827), per dire, è l’iniziatore della tradizione del presepio pugliese in cartapesta, ancora oggi considerato fra le tipologie più interessanti e belle, e il presepio dell’abate siracusano Gaetano Zumbo (o Zummo; 1656-1701), per non fare che un solo altro esempio, è al Victoria and Albert Museum di Londra.

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A questo punto che cosa fate? Ve la cavate con una capanna, quattro pastori e qualche pecora vagabonda su un angolo del mobile del salotto? Se volete ripensare il presepio di casa vostra, ancora c’è tempo. Datevi una mossa.

Duccio Balestracci