Aspettando Natale: vecchietti volanti e ceppi generosi

ASPETTANDO NATALE, QUINTA PUNTATA DELLA RUBRICA CURATA DAL PROFESSOR DUCCIO BALESTRACCI. FINALMENTE… BABBO NATALE!

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Ormai manca poco: Natale è alle porte e, ovviamente, siete tutti in fibrillazione per acquistare i regali. Non capisco bene chi ve lo faccia fare: i regali li porta Babbo Natale, sicché rilassatevi, no? Mettete le calze al camino, o appese dove altro volete (ormai il camino non c’è più; tutt’al più – almeno in città – un caminetto da braciata, ma con la canna fumaria così stretta che solo un Babbo Natale anoressico riuscirebbe a calarcisi) e la mattina le ritrovate piene di regali. E senza spendere un centesimo. Vi si deve dir tutto, santa gente…
Ma da dove vengono fuori tutti i particolari che, ormai, per tradizione accompagnano i riti della vigilia? E, ancora: se i regali li porta San Nicola e, nelle zone che non sono di sua competenza, Santa Lucia, da dove spunta fuori questo simpatico trippone (ma le analisi del colesterolo, un’occhiatina alla situazione delle transaminasi, un controllino della glicemia se li farà qualche volta? No, perché, visto che anche lui non è più un’erbolina di marzo…); si diceva: da dove viene questa terza figura dispensatrice di doni, e perché lui si è preso in carico proprio il turno della vigilia della Natività?
Cominciamo proprio dalle calze. O meglio, da ciò che precede la calza al camino. E ciò che la precede è abbastanza antico: nella tradizione folklorica germanica, il dio Odino (detto anche Wotan: la deità principale della cultura eddica e della mitologia norrena) ogni anno, nei giorni del solstizio d’inverno (rieccolo!), compie una grande battuta di caccia insieme a tutti gli altri dei e agli spiriti dei guerrieri morti. Per rifocillare il suo magico cavallo volante (Sleipnir), i bambini lasciano presso il camino i loro stivali pieni di biada, zucchero e altre leccornie per sfamare il destriero. Come ricompensa, Odino sostituisce il cibo con regali e dolciumi (attenzione: nei paesi nordici questo scambio rituale è applicato al cavallo di San Nicola, e dove gira Santa Lucia, all’asinello della martire).
E adesso avete capito che c’entrano le calze, domesticazione dei rudi stivali nordici.

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Andiamo avanti. E andiamo avanti tenendo d’occhio un particolare non trascurabile: San Nicola è un vecchio vescovo, accessoriato dell’icona della vecchiaia, la barba. Altrettanto, come un vecchio barbuto è raffigurato Odino. Quindi, la figura archetipica del dispensatore di doni “deve” essere un vecchio (con l’ovvia eccezione di Santa Lucia) barbuto. Questa raffigurazione si incrocia con un altro personaggio, ancora una volta uscito dall’antica tradizione folklorica germanica: quello di un mostro che si cala per le cappe dei camini per uccidere la gente. Arriva un sant’uomo (alcune versioni dicono che si tratta proprio di San Nicola) che lo esorcizza e lo costringe ad ubbidirgli e a calarsi nei camini, sì, ma per portare i regali. La vicenda presenta molteplici varianti nella conclusione, ma quella che più ci interessa è la versione che ci fa vedere il mostro, ormai buono, che, per la bisogna, si fa a sua volta aiutare da uno stuolo di elfi e folletti. In Islanda, questi folletti sono 13 (e agiscono in autonomia: sono una cooperativa che ha fatto a meno dell’imprenditore Babbo Natale) e ciascuno di essi distribuisce, a turno, un regalo per ogni giorno che precede il Natale. I bambini islandesi, peraltro, non espongono le calze, per accogliere i doni, ma le scarpe, come nella vecchia leggenda.
Ma il ciccione? L’amabile panzone attinge da tutto questo composito serbatoio fatto di santi, mostri, divinità nordiche e quant’altro, ma non è nemmeno finita qui. Vediamo che c’entra la vigilia di Natale.
Nel mondo romano, nei giorni del solstizio d’inverno, si celebravano i Saturnali, nei quali l’età dell’oro dell’epoca di Saturno era convocata e rivissuta in omaggio al perdurante concetto di ciclicità del tempo del quale già si è detto. I Saturnali si tenevano dal 17 al 23 dicembre (o, almeno, questo fu quanto stabilito da Domiziano, imperatore dall’anno 81 al 96). I Saturnali erano caratterizzati dall’inversione dell’ordine: i padroni servivano gli schiavi, i bambini comandavano gli adulti, tutto doveva svolgersi nel clima della fraternità e dell’amore universale (pro tempore eh! Finita la festa, ognuno tornava al suo posto). All’origine della melassa natalizia (lasciatemelo dire!) del periodo in cui tutti si deve essere più buoni c’è anche questo retaggio di antichità. Nel periodo dei Saturnali (e questo è un addentellato che ci serve) per propiziare il dono del ritorno della luce e della stagione dei raccolti, ci si scambiano doni.
Sempre nel mondo romano, anche se un po’ dopo rispetto a quanto detto fin qui, le feste solstiziali si arricchiscono di un’altra celebrazione che è quella del “Sol Invictus” (calma: ne parliamo in dettaglio alla prossima. Per ora prendete nota e fidatevi) il 25 dicembre.
Eccolo il connesso che ci fa capire qualcosa. I Saturnali prevedono lo scambio dei doni; la festa del “Sol Invictus” cade (o almeno qualcuno così ha detto e ha fatto scuola) nel giorno del nostro Natale.
Non basta nemmeno questo. Nel medioevo, l’eredità dei Saturnali è raccolta da una serie di feste “chiassose” e scompigliate, delle quali sono protagonisti gli adulti che si riconoscono nell’Abate dell’Esultanza e i bambini che occupano il ruolo degli adulti e “comandano” grazie al loro rappresentante che è l’Abate (o il Vescovo) dei Giovani. Una dicotomia complessa (evocatrice di altre dicotomie: vecchiaia/gioventù, vita/ morte) che si incentra sull’egemonia dei fanciulli (e sulla loro richiesta di regali che, non esaudita, poteva evocare la disgrazia su chi non donava, come ancora succede nel rito di Halloween) e su una figura che garantisce un caos, per così dire, controllato e gestisce la “contrattazione” con l’elemento giovanile, con le caratteristiche (e le funzioni di distributore di doni benauguranti) di San Nicola.
Non c’è nessun narrato folklorico coerente, come si è capito: elementi diversi, per tipologia, provenienza, ancoraggio sacrale e quant’altro, si combinano, si contaminano e ridisegnano un contesto (o più contesti) che al tempo stesso li ricapitola, li usa in parte e in parte li oblitera, li stravolge e li restituisce nel nuovo personaggio.
Che in origine è vestito di verde (il colore della natura che si spera rinasca), ma poi rifornisce il suo guardaroba di palandrane esclusivamente di colore rosso. Perché? Ma lo sanno tutti: è stata la Coca Cola che lo ha usato per la pubblicità e lo ha vestito con il suo colore aziendale.
Megabufala. Non è vero niente.
La Coca Cola fa la sua comparsa (come medicinale, peraltro) nel 1886 e già dal 1862 l’illustratore Thomas Nast aveva raffigurato Babbo Natale vestito di rosso, così come in altre rappresentazioni il personaggio era stato addobbato di rosso e bianco (che guarda caso sono i colori dei vestimenti episcopali, verosimilmente desunti proprio dalla figura di San Nicola), e non solo: la figura di Babbo Natale, prima di essere usata dalla pubblicità della nota bibita di Atlanta era già stata usata dalla White Rock Beverages per promuovere il consumo di acqua minerale, nel 1915, e di ginger ale nel 1923.

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Babbo Natale, adesso, può ammusare le renne al verrocchino: sta per entrare e partire, occupando la notte della vigilia con tutto quel bailamme di miti, racconti e fantasie che si sono intrecciati nei secoli e che hanno composto la sua funzione. Lui e le sue renne.
Già: ma che c’entrano le renne? D’accordo, la figura di Babbo Natale ha un DNA nordico molto marcato, e in quella cultura la renna è l’animale sacro della dea Grande Madre, Isa (o Disa); guida le anime dei defunti ed è il simbolo lunare. Ma forse questa è solo una parte della spiegazione, perché documenti inglesi della prima età moderna attestano l’uso di eseguire danze natalizie esibendo trofei di corna di renna. E’ chiaro che in questo caso l’ancoraggio alla performance natalizia da parte della figura di questo animale è proprio il Natale in sé e per sé e non Babbo Natale che, all’epoca, era del tutto sconosciuto.

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Si potrebbe pensare di aver finito, e invece no.
In alcune realtà folkloriche (per esempio in quelle dell’Italia centrale) la figura di Babbo Natale è sostituita da un tronco d’albero (usanza antichissima e diffusa ovunque: oggi rimasta solo nella forma di un dolce, il tronchetto di Natale nato, per quanto se ne sa, nella Francia del Novecento), il “ceppo”. In origine è un pezzo di legno che viene acceso la sera della vigilia e che deve bruciare ininterrottamente per tutte le dodici notti fino all’Epifania, ma il ceppo (al quale si rendono omaggi e si fanno “doni” di cibo e dal quale si aspettano segni sulla fertilità dell’anno che deve cominciare e contraccambio di regali); il ceppo, si diceva, finisce per antropomorfizzarsi e diventa un vecchio che porta i doni. Quando ero piccino io, la sera della vigilia non passava nessun Babbo Natale (termine che ci suonava esotico e buffo; e figuratevi quello di “Papà” Natale! La prima volta che l’ho sentito me la son fatta sotto dalle risate) ma passava il Ceppo a distribuire regali ai bambini buoni.
Babbo Natale insomma è lo spirito della festa ed è logico che, per quanto recente sia la sua egemonia di donatore (fino a metà dello scorso secolo, dove non arrivavano San Nicola o Santa Lucia, i regali li distribuiva la Befana), sia sempre stato amato da tutti.
Ma manco per sogno!
La Chiesa cattolica (ma anche quella protestante) lo ha a lungo guardato con sospetto per quel tanto di pagano e desacralizzante che riproponeva e perché distraeva dalla concentrazione sulla sacralità del giorno in cui nasce il Salvatore. Nel 1951 a Digione i cattolici inscenarono un processo ed una esecuzione capitale di Babbo Natale, impiccato e bruciato sotto forma di fantoccio alle inferriate del duomo di quella città (e il fatto dette pretesto a Levi-Strauss di scrivere quel piccolo gioiello che è l’articolo, apparso nel 1952 su Les Temps Modernes, “Le Père Noël suplicié”). Per parte sua, l’Unione Sovietica (e dietro a lei i paesi del blocco comunista) aveva già da tempo provveduto a sostituire la figura (troppo reazionaria e borghese) di Babbo Natale con quella di Nonno Gelo, identico nelle forme e nelle funzioni a quell’altra figura, ma vuoi mettere? questo aveva nella tasca della palandrana la tessera del PCUS. Nonno Gelo, peraltro, è accompagnato da un’aiutante (ancora una volta) che in questo caso è la nipote Snegurca, la Fanciulla di Neve, e insieme distribuiscono i doni a Capodanno (Natale è roba da reazionari cristiani). Il bello è che per la figura di Ded Moroz (come si chiama in russo) è stato arruolato un personaggio del folklore slavo, il demone Morozko che gelava le persone. Quando fu convocato indossava un vestito blu-ghiaccio, ma non gli ci volle molto perché gliene cucissero addosso un altro, ancora una volta, rosso. Secondo il Politbüro era un omaggio alla bandiera sovietica; di fatto, si finì per creare una replica pressoché perfetta (data del “giro” a parte) del grassone volante, espressione del decadente mondo capitalistico.
Ok, adesso potete preparare la calza. Possibilmente pulita di bucato, eh! Sennò Babbo Natale, come regalo, vi ci fa trovare una confezione di Divor-Odor.

Duccio Balestracci