In fondo a via dei Rossi, si affaccia alla finestra una donna bianca e nuda. Ad ammirarla, un invaghito spettatore…
”Ovvia, che c’avete da guardare?“
Sembra dire proprio questo, la gentil donna affacciata a quella finestrella tanto bellina, così bianca da spiccare, impudica, sopra al centoventitré di via dei Rossi. L’ammiro ogni giorno, ormai da vent’anni.
La vedo spuntar da dietro un fine tendaggio – oh, seta pregiata! Un regalo di quelli più in giù, mi dicono – tutta ignuda che quasi mi fa’ prende il freddo anche a me e ve lo devo proprio dire: quante volte mi sarei voluto avvicinar guardingo un po’ più sotto e sussurrarle ( mica co’ un bercio, la mi’ mamma m’ha insegnato bene a parlar con le signore ) “Oh, te, copriti! Se pigli freddo e devi rimanè a letto… Io chi guardo, poi?”
Insomma, bisogna pur che pensi ai bisogni di un por’omo come me, ormai arrugginito dagli anni trascorsi e da tutta quell’acqua che ho chiappato a furia di starmene qui a guardarla, la mi’ bella Dama Ignuda alla finestra, con quel viso allungato e il mento che sembra volerne indicare i seni tondi e bianchi – maremma, quanto bianco!
Eppure, ve lo voglio proprio dire: io un bianco bello così, un l’ho mai visto! Mi son chiesto tante volte da dove ella venisse, se qualche mascalzone, figlior di una gatta, le avesse rubato le vesti lasciandola così, spoglia e triste, a rimirar la strada in attesa del suo ritorno.
La vidi affacciarsi per la prima volta nel lontano millenovecentonovantacinque, quando il Signor Pier Luigi Olla – stimato scultore – regalò la Dama alla mia gente, accompagnandola con quell’unico bel melograno sormontato da un bruchino altrettanto ignudo, a ricordar i suoi natali, forse?
Oh – quanta gioia proverei nello scoprire il suo lignaggio. Me la sono sempre immaginata come una donna di umile provenienza, del resto, dalle mie parti non siamo mai stati poi molto facoltosi – sempre appassionati – ma con le tasche vuote e le scarpe bucate, setaioli che le vesti le tessevano per quell’altri quattrinai, mica per noi.
E anche le sue vesti, per l’appunto, me le immagino perdute per chissà quale giuoco d’amore, rubate – come ho già detto – dal più avaro degli amanti. Si dice che nel millecinquecentocinquantaquattro, tale Cosimo de’ Medici, mise gli occhi sulla mia cara Siena, colpevole di aver stretto legami con la Francia e di essersi affermata come fiera oppositrice del potere mediceo.
Le mie fonti narrano di un capitano imperiale, Giangiacomo de’ Medici, colui che guidò la spedizione incaricata di conquistare l’infame città e – datemi retta – proprio lui! Oh, cane! Proprio lui m’immagino intrufolarsi tra le lenzuola della mia bella, avaro e disgraziato, perché una città conquistata non basta se non torni a casa con il fiore di una giovine fanciulla.
Egli, probabilmente ammaliato dalle vesti che le scaldavano il bianco corpo, se ne appropriò come fossero il trofeo da sfoggiare in ricordo di quella presa, quando Siena cadde sotto l’infausta artiglieria fiorentina e la mia dolce Dama Ignuda si spogliò della seta e si vestì di tristezza, la stessa per cui mi struggo ogni giorno, da vent’anni a questa parte.
Come biasimarmi, del resto? Non si può evitare il suo bel viso levigato! Io no di certo, per ovvie ragioni, ma li vedo i turisti che rischiano il collo per ammirarla, sai? Vorrei spesso dissuaderli dal fotografarla con così poco rispetto, portano a giro le sue grazie immortalate nei loro clik come fossero robe messe lì per il diletto di tutti e nemmeno si chiedono che ce l’hanno messa a fare, lì, una dama tutta gnuda a piglià il freddo e i berci dei cittini, costretta a fissare tutto il giorno lo scalone della bottega di sopra, zozzo di cartacce e tozzi di pane che qualche gazzilloro c’ha lasciato così, perché gli c’andava.
Non me ne vogliate per l’ardore che metto nel parlare di lei, capitemi, se potete: la venero da sempre e lei, la mia bella Dama, che neanche mi degna di uno sguardo.
Dovrei compiacermi di tutti quelli che si fermano a decantarne la bellezza, dovrei esser felice che le sue grazie gnude siano così osannate, meraviglie incastonate nel rione a me caro e facenti parte della storia di questa bella città, l’ennesimo elegante spettacolo di cui un forestiero può godere senza dover spendere denaro, perché la mia amata si concede così, priva di vergogna, ancora in attesa, un po’ come me, per sempre.
Oh, mia gentile Dama Ignuda, inconsapevole compagna di vita, forse sarò degno di ricevere un tuo sguardo, prima o poi, ma non temere, fanciulla delusa, non me ne farò cruccio della tua indifferenza. Ti amerò così, ti ammirerò in eterno, incorniciata nella tua bella e ordinata finestra in via dei Rossi, poco prima di scender giù per via del Comune, qui resteremo a narrare le storie del rione e della città tutta.
Mi perdonerete per l’avervi annoiato con questa manfrina, me ne assumo tutta la colpa, ma qui a mollo nella mia fontanina ci s’annoia un po’ e – lasciatemelo dire – i pesci rossi un’ fanno molta compagnia.
E poi, del resto, io per le finestre c’ho sempre avuto passione!
In fede,
la statua di Barbicone.
(Arianna Falchi)