Ho già scritto un pezzo simile per la precedente campagna Fai, ma forse è opportuno ripetere alcune cose. Partendo dall’idea che se lo vogliamo salvare, sarà opportuno almeno conoscerlo meglio.
Chi? Naturalmente John Conolly, lo psichiatra inglese che ha dato il nome al padiglione dei “clamorosi” che si trova in grave degrado e che, in questo periodo, cerchiamo di nuovo di difendere.
A cominciare dal cognome che è un tipico “surname” irlandese che significa discendente di Conghalac che, a sua volta, vuol dire valoroso. Esistono molte varianti nella grafia di questo nome di famiglia, la forma più frequente è quella con la doppia enne (Connolly), a volte si trova quella con una e al posto della o (Connelly). Questa estrema variabilità rende forse ragione delle frequenti storpiature di questo cognome che, sia detto una volta per tutte, è Conolly. Anche la dizione, qui da noi, è spesso sbagliata. Il giusto modo di pronunciare questo nome è quello con la prima o accentata e non la seconda come, italianizzandolo un po’, capita spesso di sentire.
Ricordo anche, come piccolo aneddoto, che a tal proposito alcuni malati l’avevano ribattezzato direttamente “Colonnino”.
Fornite così le esatte generalità del “nostro”, veniamo a qualche nota biografica.
Pur provenendo da famiglia irlandese, tutta la vita di John si è svolta prevalentemente nelle vicinanze della costa orientale dell’Inghilterra. Nasce, infatti, nel 1794 a Market Rasen, nel Lincoln shire, paesino tuttora abitato da poco meno di cinquemila abitanti. Si trasferisce più a nord, a Edimburgo, per studiare Medicina dove, nel 1821, si laurea a ventisette anni.
Dopo aver esercitato in provincia come generico per qualche anno, la sua carriera decolla. Prima è nominato professore di Medicina all’University College di Londra e poi ottiene la nomina a primario medico nel manicomio di Hanwell, un sobborgo di Londra (l’ospedale adesso si chiama West London St. Bernard’s Hospital). Il suo interesse per la Psichiatria era in realtà emerso fin dagli esordi, tanto che il titolo della sua tesi di laurea era stato: “De statu mentis in insania et melanchonia”. A quei tempi però alla Psichiatria non era ancora riconosciuto il rango di materia fondamentale nel curriculum degli studi medici e si può pensare che John Conolly abbia a lungo aspettato prima di seguire in pieno i suoi interessi.
Quando però può finalmente dare pieno corso alle sue passioni nell’ospedale di Hanwell, subito elabora e mette in atto il suo metodo di cura “no restraint”, cioè un trattamento la cui caratteristica fondamentale era l’assenza completa di ogni metodo di contenzione fisica. I risultati del lavoro di quegli anni sono raccolti nel libro dal titolo: “The treatment of the insane without mechanical restraints” edito nel 1856, volume che conserva ancor oggi una sua attualità, tanto da essere riedito in italiano da Einaudi nel 1974 con il titolo “Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi”.
Gli albori del trattamento psichiatrico che di medico, nel senso odierno, possedevano poco o nulla, avevano già visto alcuni psichiatri prendere una strada di quel tipo. Si pensi a Philippe Pinel (1745 – 1826), figura quasi leggendaria del rinnovamento operatosi sull’onda della Rivoluzione francese, oppure all’empolese Vincenzo Chiarugi (1759 – 1820) che come Pinel si oppose al trattamento inumano fino allora riservato ai malati di mente, dirigendo il manicomio fiorentino di San Bonifazio in maniera molto liberale.
Probabilmente Conolly s’ispirò a questi personaggi che lo precedevano quasi di una generazione, ma poi andò avanti, elaborando in maniera molto moderna le sue teorie di gestione e trattamento. Cito a tal proposito le sue parole, dove sostiene che: “La costrizione è simbolo d’abbandono del malato ed è il sostituto delle cure numerose che il suo stato richiede”. Parole di una modernità assoluta tanto più che sono scritte in epoca pre-farmacologica. So per esperienza che quanto più un malato è agitato, tanto più richiede personale attento e numeroso. Comunemente la gestione con mezzi costrittivi è scelta, nel migliore dei casi, per mancanza di personale, nel peggiore invece, per uno scarso impegno verso persone difficili da accompagnare nei momenti critici. Inoltre, Conolly sostiene che bisogna socializzare col malato, decifrare la sua apparente incomprensibilità per prevenirne la violenza, cercare un rapporto con l’ambiente familiare che ha prodotto la malattia anche nel periodo post ospedaliero. Insomma, molti dei cardini della moderna psichiatria che dovrebbe agire, come si dice, sul territorio, nei suoi scritti, ci sono già.
Poi evidentemente i fervori illuministici si affievolirono fino a venir meno del tutto e così il movimento che aveva in Conolly il principale esponente finì nel giro di pochi decenni, per tornare alla ribalta oltre un secolo dopo la sua morte che avvenne nel 1866.
Da queste poche righe chi ha avuto la pazienza di leggere potrebbe chiedersi: ma allora che c’entra John Conolly con un reparto come il padiglione che porta il suo nome, quello per i “clamorosi” che più chiuso non poteva essere? Appunto niente, non c’entra proprio niente, salvo che non si voglia pensare a una sorta di maligno paradosso.
Io non so (sarebbe interessante scoprirlo) chi scegliesse i nomi dei vari padiglioni (o meglio quartieri) del San Niccolò e come questo procedimento avveniva. Certo chi decise di dare al padiglione dove avveniva il massimo del controllo costrittivo, il nome di Conolly non poteva non sapere che così stabiliva un paradosso. Forse si può pensare, ma sono solo benevole supposizioni personali, che questo nome fosse una sorta di auspicio, quasi un tentativo di rendere, almeno sulla carta, meno restrittiva possibile la permanenza in quelle celle. Del resto, l’Azzurri, il famoso architetto che disegnò e curò la costruzione del padiglione, anche lui contribuisce a questa sorta di visione un po’ edulcorata e paradossale quando così descrive le cellette di contenzione: “Si è provveduto alla loro ventilazione e riscaldamento e il vano che illumina può aprirsi intieramente in modo che facendo l’ufficio di parete, dà adito ad un ridente giardino corredo di ogni cella. Una di queste, seguendo l’indicazione medica, [prevederà] fino all’altezza stabilita, le pareti imbottite e il pavimento di legno cerato […] aria, sole, profumo dei fiori, e il lieto orizzonte conforteranno le tristi condizioni del malato”.
Poi nella pratica del tempo le cose andarono diversamente. Andate, per esempio, a veder i graffiti di coloro che in quelle celle hanno soggiornato, al loro modo di contare i giorni, i mesi e gli anni di prigionia (difficile chiamarla in altro modo), altro che aria, sole e profumo di fiori!
Tornando in conclusione al “nostro”, io penso che il povero John Conolly, erede di una stirpe di valorosi, come vuole il suo cognome, quando sente con tanta frequenza storpiare il suo nome si adombri un poco, ma forse quello che lo fa proprio infuriare e rigirare nella tomba è la vista di quello che nel tempo diventò quel padiglione che porta il suo nome e che costituisce a tutti gli effetti un paradosso molto stridente.
E perciò anche per lui, per farlo riposare in pace, cerchiamo di salvare quel luogo dall’incuria e dall’oblio che tutto confonde.
Andrea Friscelli