CountFerdi (Bluebeaters): “Lo ska è una seconda pelle”
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Intervista a CountFerdi dei Bluebeaters, che stasera suoneranno in Fortezza Medicea. Il batterista milanese sorride al ricordo di un concerto fatto a Siena nel 1989…
The Bluebeaters
Con l’intervista a CountFerdi dei Bluebeaters, al secolo Ferdinando Masi, partiamo dalla fine, dai saluti. Dal ricordo di un concerto fatto dal suo gruppo delle origini, i Casino Royale, nel 1989 in Piazza Salimbeni. Era una festa dei goliardi senesi, e quell’anno a fare il Princeps era Roberto Ricci. CountFerdi sorride ancora al pensiero delle macchine tagliate degli studenti.
A trent’anni da quell’epico concerto, il batterista milanese stasera tornerà a Siena con i Bluebeaters per un concerto in Fortezza Medicea. Dalle 21, in compagnia dei redivivi e senesissimi Skagnozzi, sul palco principale di Vivi Fortezza faranno ballare a ritmo di ska e rocksteady, due generi musicali giamaicani fratelli maggiori del reggae.
CountFerdi, Bluebeaters in concerto a Siena, cosa avete in mente per la serata?
«Sono i 20 anni di The
album, il nostro primo lavoro, per cui faremo un mix tra i pezzi di quello,
brani dal nostro ultimo Everybody knows,
del 2015, e qualche anticipazione del disco nuovo. Non lo abbiamo ancora
finito, ma sarà fatto di pezzi originali in italiano. Uscirà tra la fine di
quest’anno e l’inizio del primo».
Sarà la prima volta per voi a Siena?
«Con Giuliano (Palma, ndr) siamo venuti almeno un paio di
volte, con i Bluebeaters da soli non mi sembra. Il posto è bellissimo, io vengo
spesso a Siena perché ho un po’ di familiari in zona».
Qual è, secondo lei, il fascino dello ska e del rocksteady?
«Lo ska è musica basata sull’off beat, la sincope. Questo fa
sì che tu non possa stare fermo. È roba tendenzialmente da festa. Lo abbiamo
conosciuto ai tempi di quando sono nati i Casino Royale, nel 1986, grazie a una
cassetta di Gaz Mayall, il figlio di John (grande chitarrista blues, ndr).
C’erano rarità, singoli della Trojan Records, della Blue Beat, della Studio
One. Il suono che veniva fuori da quelle cassette era ed è, per me,
incredibile: sporco ma dinamico. Quei nastri ci hanno aperto gli occhi su
un’isola, la Giamaica, di cui non sapevamo niente. Abbiamo poi sviluppato lo
ska declinandolo in rocksteady, reggae, eccetera, per tutta la nostra vita, con
i Bluebeaters da venticinque anni, in generale da trent’anni. È una seconda
pelle, un modo di comunicare. Se fai quella roba lì, sei consapevole che il
concerto deve far muovere. Anche pensare, certo, un aspetto di cui teniamo
conto quando scriviamo i brani in italiano e che manca con le cover».
Ecco, restando in argomento “brani in italiano vs cover”: qual è la differenza nell’approcciarsi a quello o quell’altro?
«Con l’edito puoi sbizzarrirti, tra migliaia di pezzi
pubblicati scegli quello che si adatta di più innanzitutto alla voce del
cantante e poi al genere che fai. Ormai capiamo al volo se un brano può
adattarsi o meno allo ska giamaicano. Posso dire che le cover le abbiamo scelte
sempre abbastanza bene, proponendo pezzi ricercati, non banali Scrivere un brano è molto più difficile.
Richiede un impegno diverso, ci devi mettere molto più te stesso. Iniziare a
comporre canzoni è stato un po’ lungo, però l’entusiasmo quando lo suoni dal
vivo, per fare un esempio, è differente».
Nella vostra musica c’è anche la dicotomia tra brani italiani e stranieri. Cosa li separa o li unisce?
«La musica italiana sostanzialmente è più vocale, lirica. Sono due mondi diversi che però alla fine si
uniscono. Molte canzoni italiane anni ’60 sono cover di pezzi stranieri».
Sono passati più di vent’anni dalla nascita dei Bluebeaters. Facendo un bilancio, secondo lei qual è la vostra forza?
«È il gruppo. Non è la band di uno o di due. Se prima
Giuliano aveva preso un po’ più di preponderanza, adesso siamo, grazie anche a
innesti di giovani eccezionali, stabili e sulla strada diversa del prossimo
album. Negli anni abbiamo suonato tantissimo, e questo ci viene riconosciuto. Se
dovessimo tracciare una riga e dire se siamo contenti di essere arrivati a
questo punto, io ti direi assolutamente di sì. Ci sono stati alti e bassi, ma
il bello è ritirarsi su. Siamo molto contenti di quello che stiamo facendo.
Oltre al progetto del nuovo album, abbiamo anche una nuova etichetta, Garrincha».