E il Comune disse basta al Corteo dei Ceri e dei Censi

A Siena c’erano abituati da sempre: il documento che parla per la prima volta del Corteo dei Ceri e dei Censi per rendere onore alla Madonna Assunta, patrona dello Stato senese, è del XIII secolo (a proposito: la data relativa all’anno 1200, riportata tradizionalmente e accettata anche da Giovanni Cecchini, è sbagliata. Il documento è posteriore) ma l’uso è certamente già invalso da prima. Cerimonia identitaria (ciascuno sfila – obbligatoriamente – con le gente vicino alla quale abita); ostentativa riaffermazione del potere cittadino (le comunità soggette o confederate con Siena fanno atto di omaggio e pagano il censo alla città tramite la sua cattedrale); sincero atto di devozione alla Madonna che – non patrona – è comunque stata riconosciuta sempre come la più importante figura celeste di intercessione.

In suo onore si portava in cattedrale il “pallium” censuale, quello stendardo di imponenti dimensioni, realizzato con stoffa costosissima e foderato di pelli preziose: come  quello cinquecentesco che Fabiana Bari ha, di recente, restaurato e che è stato esposto alla cittadinanza, con la raffigurazione della balzana e del leone del Popolo nel fregio d’oro che l’attraversa e che mozza il fiato dall’emozione, a pensarlo innalzato e in processione seguito da un’intera città in devozione.

Con la perdita dell’indipendenza, la cerimonia aveva parzialmente cambiato di segno, abbandonando, certo, il significato di riaffermazione del dominio politico-territoriale, perché ora era Siena che doveva partecipare (obtorto collo e non di rado in maniera di insolente sfidante irrisione: si legga l’incuriosita testimonianza di Michel de Montaigne che vede sfilare i beffardi senesi nel San Giovanni fiorentino del 1581) alla cerimonia del 24 giugno a Firenze, ma aveva mantenuto intatta la carica devozionale e di amore mariano.

Ci voleva l’Unità d’Italia per scrivere su questo secolare rito la parola fine. Ci voleva il clima avvelenato di scontro politico fra cattolici e liberali perché anche il Corteo della vigilia dell’Assunta diventasse pretesto (o temuto tale) di violenze di strada. Così, il Comune non aveva avuto dubbi né esitazioni e, nel 1861, aveva, con un tratto di penna, soppresso una storia pluricentenaria, riuscendo dove nemmeno due secoli di amministrazione granducale erano arrivati: a cancellare la memoria fondante più sensibile dei cittadini. Non le amava granché, del resto, la nuova cultura liberale e progressista, questi residui di medioevo: meno ne restavano, meglio era. Se poi si fosse potuto farla finita anche con quel cascame clerical-plebeo che era il Palio, sarebbe stato il segno che anche Siena si stava finalmente incamminando sulla strada della modernità, ben omologata a tutto il resto del Regno.

Ci volle l’intelligente opera di recupero, restauro e riscrittura del Palio di Fabio Bargagli Petrucci perché, nel 1924, si tornassero a vedere, alla vigilia dell’Assunta, i senesi sfilare in processione verso la cattedrale per offrire il cero alla Madonna e per portare a benedire, nella stessa occasione, il drappellone che sarebbe stato consegnato alla vincitrice del Palio due giorni dopo.

Era solo una citazione del vecchio corteo, sia chiaro; rispetto all’originale c’era più fantasia che filologia, ma era comunque espressione della volontà di non perdere una memoria a lungo amata e condivisa dall’intera città, che il podestà senese voleva, adesso, reinserire nel linguaggio civico-politico del regime fascista. Non fu la sola intuizione di questo controverso, interessante, personaggio che vale davvero la pena di conoscere: leggete quel che ne hanno scritto Giuliano Catoni e Marco Falorni e ve ne renderete conto. Qualche idea di lui e del suo rapporto con il Palio ve la potete fare, poi, se ne avete voglia, anche sulle pagine de “Il Palio di Siena. Una festa italiana” (edizioni Laterza).

Duccio Balestracci