Io mi chiedo che effetto gli fa, alle rondini, sobbarcarsi tutta quella po’ po’ di trasvolata intercontinentale per ritornare dalle nostre parti, dopo aver svernato in caldi resort e suggestivi villaggi-vacanze del Sud Africa (digli bischere, alle rondini), svolazzando per migliaia e migliaia di chilometri, e arrivare qui e trovare che hanno sbagliato data. O che, comunque, tutto l’apparato immaginario che legava il loro arrivo al ritorno della primavera e concentrava tutto nel nome e nella figura di un santo ora non esiste più.
Fin da bambini ci insegnavano che il 21 marzo, per San Benedetto, comincia la primavera e immancabilmente la rondine è sotto il tetto. Ora qualche cosa è cambiata. No, non l’inizio della primavera (che quest’anno, per chi lo vuol sapere, mentre state leggendo, è già entrata da un giorno: esattamente alle 10.28 di ieri 20 marzo, il momento in cui le ore di buio e di luce sono state identiche), ma la festa del santo che l’annunciava.
San Benedetto, infatti, è stato trasferito all’11 luglio e a quella data le rondini, non solo sono già arrivate, ma stanno cominciando a prenotare i voli di ritorno perché entro un paio di mesetti se ne rivanno.
Ora, sia chiaro, non vogliamo metter bocca. I santi e le loro relative ricorrenze sono nelle disponibilità di Santa Romana Chiesa, e se Santa Romana Chiesa decide che uno di loro deve trasferirsi perché così si migliora il funzionamento dell’Azienda Celeste ha tutto il diritto di farlo.
E’ stato proprio quel che è successo a San Benedetto, proclamato da Paolo VI patrono dell’Europa nel 1964, la cui festa ufficiale è stata spostata, a partire dal 1970, all’11 luglio, giorno in cui, per la verità, già dall’VIII secolo, si celebrava la traslazione delle reliquie di Benedetto nell’abbazia di Fleury, in Francia, avvenuta in questo giorno nel 660. Ad essere sinceri, alcuni studiosi (vedi Alfredo Cattabiani nel ricchissimo e ben documentato repertorio sui “Santi d’Italia”) non sono del tutto convinti della fondatezza di questa datazione, ma è un fatto che essa è accettata dalla Chiesa e che risponde all’esigenza di evitare che una festa solenne e una memoria obbligatoria come questa del santo umbro cadano in periodo quaresimale che deve essere interamente dedicato alla preparazione alla Pasqua.
Per la verità, nessuno ha cancellato la memoria di Benedetto dal 21 marzo (dies natalis, cioè della sua morte, avvenuta in un anno fra il 547 e il 569), però, per dire, nei calendari, lo troverete, sì, nella lista dei santi del giorno, ma in posizione molto arretrata rispetto a quelli che hanno ormai occupato le prime file di questa casella (San Serapione, ad esempio; San Nicola di Flüe – patrono della Svizzera – e altri ancora). Nel santorale civico di Norcia (la povera città martire devastata dal recente terremoto), che, fra il 480 e il 490, gli dette i natali, tuttavia, Benedetto è ancora al centro di cerimonie che coinvolgono l’intera popolazione, con l’omaggio, ogni anno, di una diversa città europea, i cortei in costume, le rievocazioni storiche e le gare dei quartieri.
Comunque, è un fatto che lo spostamento della sua festa ufficiale ha creato una mutilazione nel legame importante che teneva insieme l’equinozio di primavera e la figura del santo, la cui regola (ora et labora: una rivoluzione culturale nel mondo monastico pacomiano e basiliano fatto, fino ad allora, solo di contemplazione e preghiera) è, se vogliamo, la parola d’ordine dell’attacco all’incolto e della trasformazione del paesaggio dopo la crisi dell’impero romano. I monaci che si armavano di zappa e falcione e che mettevano a coltura le terre (oltre a costituire un esempio formidabile e a svolgere un ruolo fondamentale di avvicinamento ai contadini nel processo di cristianizzazione delle campagne) erano il simbolo vivente di un mondo che si leccava le ferite del collasso della latinità e si proponeva come modello di un ciclo nuovo. Che la funzione economica di questa scelta trovasse ancoraggio nel santorale ecclesiastico in una data che coincideva con l’inizio della primavera era una metafora che, coniugando folklore e santità; sviluppo dell’agricoltura e ripresa della fiducia in un mondo nuovo, innescava un corto-circuito mentale formidabile e faceva di Benedetto l’icona della rinascita. Dell’anno e dei tempi.
Il fatto che molti dei miracoli di Benedetto siano (in apparenza) prodigi banali, ma significativi, è un ulteriore attestazione di questo legame. Chi vuole, li può andare a vedere nel Chiostro Grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (qui a due passi), rappresentati da Luca Signorelli (fra il 1497 e il 1498) e completati dal Sodoma dopo il 1505. Vi vedrà, così, fra gli altri, il miracolo della scoperta di una vena d’acqua, della riparazione di un capistéo di legno (quello strumento che serviva a setacciare la farina) rotto, del ritrovamento della parte metallica di un roncone per falciare l’erba, caduto in acqua. Miracoli da niente, si dirà. Niente affatto: storie significative. Il roncone (la cui parte di ferro, all’epoca, vale, peraltro, un sacco di soldi) è l’icona della preziosità degli attrezzi che servono a mettere a coltura i campi e il capistéo è un accessorio indispensabile (e anch’esso costoso) per la panificazione. La scoperta della vena d’acqua mette, a sua volta, l’accento su un elemento indispensabile per sviluppare l’agricoltura. L’ordine di osservanza benedettina che nasce alla fine dell’XI secolo, fondato a Citaeux da Roberto di Molesmes, e che dal nome latino della località – Cistercium – si chiamerà “cistercense” farà proprio del governo delle acque una delle sue principali caratteristiche.
Insomma, queste non sono solo storie di un sant’uomo: sono manifesti programmatici.
Ora, per ritessere questo sfilacciato legame fra la vicenda benedettina e il calendario agricolo-folklorico bisogna fare un cammino un po’ obliquo. Peccato: i cammini obliqui, alla lunga, finiscono per essere abbandonati.
Pazienza, comunque: la primavera arriva uguale e se la rondine, nel calendario, trova ad accoglierla San Serapione vorrà dire che nidificherà – che so? – sotto un lampione (quelle che vanno in Svizzera e vi trovano San Nicola di Flüe bisogna che si arrangino: non ho idea dove possano nidificare. Nella stalla con il bue?).
A proposito: quelle che svolazzano nei cieli della nostra città non sono rondini eh! Di rondini qui non se ne vedono da un sacco di tempo: quegli uccellini neri che chiamiamo rondini (bellini da morire, allegramente chiassosi e che scacazzano sine misericordia sui nostri bucati tesi ad asciugare) sono in realtà rondoni. Che non sono rondini ciccione, ma proprio animali differenti. La rondine è, nella classificazione (1758) di Linneo, un volatile della famiglia delle Hirundinidae, mentre il rondone fa parte di quella degli Apodidi. Stesse forme, stesse abitudini, ma piumaggio diverso (la rondine ha il petto bianco, il rondone è tutto scuro) e, soprattutto, diversa carta d’identità.
E ora forza, gente: tutti a naso in su a cercare di avvistare la prima rondine (anzi: il primo rondone). E, con o senza San Benedetto, buon inizio di primavera.
Duccio Balestracci