A Siena La fede ne’ tradimenti (1701), prima ripresa italiana in tempi moderni

Da sempre attenta al teatro musicale barocco e alle riscoperte, l’Accademia Musicale Chigiana presenta una rarità per la 68ª edizione della Settimana Musicale Senese martedì 12 luglio (replica il 13) al Teatro dei Rozzi (ore 20.30), con la prima ripresa italiana in tempi moderni de La fede ne’ tradimenti dramma per musica in tre atti del 1701 di Attilio Ariosti su libretto di Girolamo Gigli, affidata a uno dei principali e più apprezzati complessi barocchi italiani, già ospite della Chigiana nelle edizioni passate: Europa Galante e il suo direttore Fabio Biondi. Gradito ritorno anche per Denis Krief che firma regia, scene e costumi e che si avvale di un cast internazionale con le voci dei soprani Roberta Invernizzi (Anagilda) e Lucia Cirillo (Elvira), il soprano Marianne Beate Kielland (Fernando) e il basso Johannes Weisser (Garzia). L’opera sarà registrata da Rai Radio Tre per successive trasmissioni. La fede ne’ tradimenti venne eseguita per la prima volta a Berlino l’11 luglio 1701 in occasione del compleanno di Federico I di Prussia presso la corte di Sofia Carlotta elettrice di Brandeburgo. Rappresenta la prima vera opera di Ariosti composta secondo lo stile musicale dell’epoca e si avvale della scrittura mordace e satirica del commediografo e letterato senese Girolamo Gigli, i cui scritti si caratterizzarono per una lingua assai diretta, una comicità vivace e spontanea nello stile della commedia dell’arte. Nel pieno rispetto dello stile satirico e corrosivo del Gigli, La fede ne’ tradimenti appare una parodia del dramma cavalleresco di foggia spagnoleggiante, con le sue nobili figure e i suoi eroici ideali. Gigli non eresse a nobile ideale la guerra tra il re Fernando di Castiglia e il re Sancio di Navarra, che comunque fa da imprescindibile sfondo storico, ma si concentrò su un’azione secondaria: l’opposta relazione amorosa tra Fernando (un potenziale eroe, che sulla scena il Gigli fa apparire in tutt’altro modo…) e la figlia di Sancio, Sancia, qui chiamata Anagilda. È proprio la protagonista femminile la vera eroina dell’opera: iperattiva nelle parole e nei fatti, non ha la minima paura del sangue (a differenza degli uomini), ella stessa ne perde a litri senza batter ciglio, porta Fernando dalle catene alla libertà, amoreggia con Elvira come se fosse un uomo e da sola porta l’opera al lieto fine. Sull’Ariosti ci introduce Fabio Biondi, violinista e direttore cui si deve la ripresa in tempi moderni di quest’opera: “Singolare destino quello di Attilio Ariosti, compositore stimato e oggetto di persecuzione a causa di una speciale tendenza a un comportamento del tutto inusuale per un musicista dell’epoca: la ricerca di una libertà comportamentale che ci fa pensare al nostro grande Mozart piuttosto che ad un prete bisognoso, come plausibilmente qualunque musicista, di un impiego stabile. L’amicizia, la protezione, la stima del grande Händel durante gli anni finali della sua vita non hanno permesso a tutt’oggi di intervenire per una “riabilitazione” completa nel panorama concertistico, eccezion fatta per la produzione particolare dedicata alla letteratura per viola d’amore. L’incontro con le sue partiture però lascia a bocca aperta… e rilancia quel tipico sgomento che tra noi interpreti si diffonde quando, di fronte a musica così profondamente ispirata, ci si domanda le ragioni dell’oblio.

Ariosti nasce da una cultura musicale fatta di un linguaggio che tra Sei e Settecento prediligeva una scrittura articolata nei contenuti, ma povera di combinazioni strumentali e soprattutto legata ad una formula che definirei “ipnotica” soprattutto nella musica vocale”. Musicista molto conosciuto all’epoca, Attilio Ariosti nacque a Bologna nel 1666 e morì probabilmente nel 1729 in Inghilterra, dove si era trasferito per coprire l’incarico di compositore alla Royal Academy of Music di Londra. Una vita turbolenta ne caratterizzò l’esistenza: fu monaco appartenente all’ordine dei Servi, virtuoso di viola d’amore, diplomatico imperiale, compositore e uomo di mondo. Viaggiò molto in tutta Europa (Londra, Berlino, Vienna e Parigi), ma venne poi bandito dallo Stato pontificio per “cattiva condotta”. Oltre che di cantate, oratori e serenate, il suo catalogo si compone soprattutto di opere teatrali, che ebbero notevole successo all’epoca. 

Finissimo letterato, allegro fustigatore dei costumi della sua epoca, Girolamo Gigli, autore del libretto dell’opera, fu una personalità di spicco della seconda metà del Seicento. Nato a Siena nel 1660, Gigli si dimostrò una figura controversa, sfuggente alle facili classificazioni, aliena ai compromessi ma al contempo capace di imprevisti cambi di rotta, con una non comune tendenza ad andare contro le regole costituite, a volte con modi di fare ed essere assolutamente plateali. Nei suoi lavori teatrali (molti furono rielaborazioni di opere francesi), Gigli trasferì le vicende dall’ambiente metropolitano parigino a quello provinciale toscano, piegando il fine moralismo dei modelli verso il grottesco, allo scopo di rafforzare il legame teatro-realtà; accentuò inoltre le situazioni ridicole mediante il gusto per il gioco linguistico, l’uso della parola colorita o del detto scherzoso, fornendo, in definitiva, un rilevante contributo al rinnovamento del teatro italiano, che culminò nella riforma goldoniana. Gigli crebbe alla scuola dei Gesuiti, di cui ne rinnegò presto i dettami con taglienti apostrofazioni, fino a ritrovarseli proprio in casa, essendo due suoi figli entrati nell’ordine. Divenne antiaccademico sviscerato proprio nei tempi dell’insegnamento all’università: prima a Pavia, poi nella natìa Siena. Puntuale nel lanciare strali contro gli uomini di chiesa, egli fu tuttavia attento e partecipe membro di confraternite religiose senesi. La sua educazione fu caratterizzata da molteplici interessi (grammatica, eloquenza, giurisprudenza, etc.), svolse un’ampia attività letteraria, che comprese ricerche storiche e filologiche e che toccò anche l’oratorio sacro, il dramma per musica e la commedia; fu perfino autore di una quarantina di componimenti musicali. Erudito riconosciuto, non fece mancare la propria vis polemica non disgiunta da naturale senso dell’umorismo neppure in ambito linguistico: sin dagli esordi mostrò una forte avversione alla politica dell’Accademia della Crusca – di cui faceva parte -, in un momento in cui la rivendicazione linguistica della tradizione senese si era ormai attenuata. Egli ipotizzò nel 1707, senza però riuscire a realizzarla, una collezione di volumi comprendente le opere edite e inedite di tutti gli scrittori senesi, che si sarebbe dovuta intitolare Accademia Sanese. Riprese più tardi l’idea limitandola però alle sole Opere di Caterina da Siena (Siena-Lucca 1707-21) e di Celso Cittadini (Roma 1721), nell’intento di legittimarle quali testi di lingua nel canone della Crusca.
Successivamente, e sempre mosso da aspro spirito polemico, avviò la pubblicazione del Vocabolario cateriniano, libello lessicografico inizialmente ideato quale illustrazione dei vocaboli senesi, che gli valse l’espulsione definitiva dall’Accademia che lo ha riabilitato, ma solo in tempi recenti, ristampando il suo Vocabolario. Fra i suoi lavori, il Don Pilone, ovvero Il bacchettone falso (Lucca 1711), commedia tratta dal Tartuffe (1664) di Molière, costituisce il momento di maggiore equilibrio compositivo e di maggior successo della produzione teatrale del Gigli, che partecipò come protagonista alla sua prima rappresentazione, nel teatro Grande di Siena, probabilmente nel 1706 o 1707. Nel 1708, in seguito allo scalpore suscitato dal Don Pilone, il Gigli fu costretto a lasciare Siena. Si trasferì a Roma, dove fu precettore in casa Ruspoli e dove fu introdotto nell’ambiente culturale della città, entrando poi nell’Arcadia con il nome di Amaranto Sciaditico. Nonostante le esperienze negative, lo spirito polemico del Gigli non si placò e, quando compose, a nome di alcuni Arcadi, un’invettiva contro Crescimbeni, fu espulso da Roma e dalla Toscana, oltre che, ovviamente, dall’Arcadia. Rifugiatosi a Viterbo, scrisse una pubblica ritrattazione inviandola al granduca e a monsignor Alessandro Falconieri, governatore di Roma, ottenendo infine il perdono. Conoscendo il personaggio, non è da sorprendersi, dunque, dell’estremo atto compiuto dal non troppo anziano letterato, il quale, rientrato a Siena da Roma, e avendo trovato il patrimonio familiare in completo dissesto a causa dell’incuria della moglie, fece di nuovo fagotto e tornò nella Città Eterna, per morire, nel 1722, accolto nel materno seno dei tanto vituperati Gesuiti.