Intervista a Pino Pecorelli, bassista dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Il gruppo romano si esibirà stasera al Teatro dei Rozzi
Più che un gruppo musicale, è un’assemblea dell’ONU. L’Orchestra di Piazza Vittorio, infatti, è un collettivo che, nei suoi ranghi completi, schiera sedici musicisti di otto nazioni diverse. Stasera, alle 21.30, saliranno sul palco del Teatro dei Rozzi nel formato di ottetto. I differenti progetti musicali dell’Orchestra, infatti, necessitano di raggruppamenti diversi, a seconda delle necessità, che possono essere l’esecuzione di brani propri o la rielaborazione di grandi capolavori della lirica.
Con Pino Pecorelli, bassista dell’OPV, abbiamo parlato dei progetti e dell’attività dell’ensemble romano. Il concerto di stasera, a ingresso gratuito nell’ambito delle attività previste dal progetto “Lampedusa, Berlino. Diario di Viaggio”, ideato dalla Fondazione Fortes, che si occupa di migrazioni.
Che concerto sarà quello ai Rozzi?
«L’organico con cui suoneremo è abbastanza nuovo. E’ una versione ridotta di quello classico, che ci permetterà di portare sul palco il nostro materiale in una veste più “asciutta”. Servirà a riscoprire la natura intrinseca di quello che abbiamo creato, un modo nuovo per suonare cose che hanno una loro storia».
Il tema al centro della serata sarà quello della migrazione. Visto che l’argomento vi tocca da vicino, come se ne può parlare con la musica?
«Noi, se vuoi, siamo l’emblema positivo delle migrazioni. Raccontiamo storie di arrivi e partenze riuscite. La maggior parte dei musicisti della nostra orchestra sono riusciti a fare un percorso di inserimento all’interno della società, ottenendo, in molti casi, i permessi di soggiorno di lunga durata. Alcuni di loro hanno addirittura la cittadinanza italiana.
Le tematiche che trattiamo, possono apparire persino più paradossali di quando iniziammo quindici anni fa. Bisogna dire, poi, come il confronto in musica tra culture differenti sia più facile che in altri settori della società. Non dico niente di nuovo: la musica è fatta di scambi, di viaggi e di scoperte. E’ facile pensare che poi si possa creare una strada comune. Noi siamo stati molto fortunati a trovare nel nostro percorso musicisti così talentuosi, capaci di fare un passo indietro per non pestare i piedi agli altri».
C’è mai stato, oltre al confronto, anche uno scontro tra culture musicali differenti?
«Assolutamente sì, lo scontro è nelle cose dell’uomo. E’ sbagliata l’idea che gli immigrati che si trovano bene assieme non litighino. Noi ci offendiamo e ci teniamo il muso per giornate intere, come fanno gli abitanti dello stesso condominio, due fratelli, marito e moglie. E’ quello che avviene in tutte le strutture sociale in cui viviamo».
L’orchestra, come hai accennato prima, ha un organico variabile. Nel tempo, poi, sono entrati e usciti alcuni musicisti. Come fate a non perdere la “linea” a livello musicale?
«La perdiamo la “linea”. Ogni musicista è insostituibile, si porta dietro un determinato suono. Un indiano può essere sostituito da un brasiliano. Nella nostra storia, abbiamo avuto anche casi di persone che non sono potute rimanere a lungo in Italia. Quando i musicisti ci lasciano, si portano via una parte di mondo. La forza del nostro direttore Mario Tronco è quella di trovare delle strade artistiche alternative.
Al momento, abbiamo sette produzioni differenti da proporre, con relativi organici ben definiti. Non è che cambiamo musicisti ogni giorno».
Nel vostro percorso musicale, c’è la produzione di rielaborazioni di capisaldi della musica occidentale come “Il flauto magico” di Mozart e la “Carmen” di Bizet. Come nasce questa idea?
«Ha origine da una richiesta fattaci da Daniele Abbado, figlio del direttore d’orchestra Claudio. Ci coinvolse nella realizzazione di un “Flauto magico” di strada, Mario Tronco e il nostro arrangiatore Leandro Piccioni colsero questa opportunità. L’esperimento suscitò l’interesse anche d’importanti istituzioni nazionali ed europee. Da lì, poi, siamo partiti per realizzare la “Carmen” e adesso c’è il “Don Giovanni”, che debutterà in Italia a novembre, dove il protagonista è interpretato da Petra Magoni.
Nel complesso, è una sfida, perché prendiamo materiale musicale eterno e cerchiamo di riportarlo alla propria radice melodica. Interpretiamo queste musiche scritte come fossero brani tradizionali tramandati per via orale. Mozart, messo in bocca a un interprete senegalese o sudamericano, diventa qualcosa di nuovo».
La musica può davvero aiutare la conoscenza reciproca o è una frase fatta?
«Il tema è abbastanza complicato. Non possiamo certo pensare di risolvere il problema delle migrazioni suggerendo di creare orchestre. Sarebbe meraviglioso se fosse possibile, ma non è così. Certo è che la musica è un linguaggio interpretabile ma non fraintendibile. Una nota se è suonata bene arriva al cuore, se è suonata male no.
Nei quindici anni della nostra attività, abbiamo cercato di mettere tutti nelle migliori condizioni possibili. I musicisti dell’orchestra hanno sempre ricevuto compensi adeguati e sono stati trattati normalmente. Se al migrante non diamo diritti, il giusto riconoscimento economico e la possibilità di esprimersi, non possiamo pensare che si possa inserire facilmente nella nostra società».
Quali saranno i vostri prossimi progetti?
«Nell’inverno prepareremo il nuovo disco che uscirà d’estate. Non ci sarà un tema preciso, sarà la musica a indicarci di che cosa parleremo».
Emilio Mariotti