Si celebra domani Sant’Antonio Abate. Ecco la vera storia di una delle figure più potenti e amate
Probabilmente l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era di diventare il simbolo dell’inizio del Carnevale e l’icona del dispensatore di salute agli animali, lui, Antonio, severo e ascetico monaco, nato in Egitto (a Coma, oggi Qumans) intorno al 251 e morto a più di cent’anni il 17 gennaio forse del 357, che aveva fatto della disciplina (ve le ricordate, vero? le tentazioni del demonio approdate, dalla religione, alla letteratura e al folklore?) e della pratica religiosa lo scopo della sua vita, come ci racconta il discepolo Atanasio, vescovo di Alessandria.
Dopo la sua morte le reliquie furono (si dice) portate ad Alessandria ma, dopo l’occupazione musulmana della città, presero la strada di Costantinopoli. Nell’XI secolo, un nobile francese, Jaucelin di Chateauneuf, le ricevette in dono dall’imperatore e le portò nel suo paese, dove vennero venerate, onorate con la costruzione di una chiesa sotto la tutela dell’abbazia di Montmajour (presso Arles) e soprattutto divennero il riferimento per la fondazione di un ordine ospedaliero (quello dei Canonici Ospedalieri Antoniani, ufficialmente riconosciuto da Bonifacio VIII nel 1297) dedito all’assistenza degli ammalati e alla cura delle malattie della pelle (l’herpes zoster, non a caso detto Fuoco di Sant’Antonio, ma non solo quello, bensì ogni forma di ergotismo), in memoria delle prodigiose guarigioni da queste patologie, operate, in vita, dal santo.
Sant’Antonio Abate è conosciuto popolarmente (e senza alcuna intenzione irriverente) anche come Sant’Antonio del maiale. E il maiale è un elemento chiave nella costruzione folklorica del culto di questo antico monaco cristiano. Per curare le malattie della pelle, infatti, in epoca pre-chimica, il grasso di questo animale era una componente fondamentale, ed ecco che, quindi, alla figura del santo viene affiancata quella del maialino che lo accompagna in tutta l’iconografia.
Di questo animale, però, si impossessa il folklore che ne riscrive la funzione collegandolo, in maniera sorprendente per i richiami antichi che convoca, al fuoco (altra immagine che di regola compare nell’iconografia antoniana: tenete a mente! fra poco troveremo la spiegazione: per ora fidatevi così). Una leggenda sarda (nuorese) elabora, infatti, a questo proposito, una narrazione bilanciata fra il comico e il mitologico: gli uomini, dice la storia, non conoscevano l’uso del fuoco e si recarono da Sant’Antonio perché li aiutasse. Il santo acconsentì e scese all’inferno (dove di fuoco ce n’è in avanzo) con lo scopo dichiarato di recuperare alcune anime ingiustamente condannate alle pene eterne. Quando lo videro arrivare, i diavoli, timorosi di quella minusvalenza di dannati che il santo avrebbe creato nella contabilità delle anime infernali, si affrettarono a chiudergli il portone in faccia, ma il maialino, veloce più di una lepre, si infilò dentro e prese a fare un casino tale che Belzebù fu costretto a chiamare indietro Antonio perché si riprendesse quel figlior d’una porcella che gli stava soqquadrando un posticino ordinato e a modìno come l’Inferno. Sant’Antonio recuperò il suo maialetto ma, nell’uscire, avvicinò la testa del suo bastone (altro elemento fondamentale nell’iconografia antoniana: notate anche questo) alle fiamme e portò agli uomini il fuoco che essi desideravano, .
Da qui, l’uso di festeggiare il 17 gennaio con grandi falò: una tradizione che si ritrova un po’ dappertutto e che in certe località, ancora oggi, costituisce una manifestazione popolare di grande rilievo (a Novoli nel Salento in provincia di Lecce, ad esempio; a Vimercate, a Mamoiada e così via).
Il folklore ha fatto, come si vede, di Antonio il replicante cristiano di Prometeo che, per aiutare gli uomini, ruba il fuoco agli dei e, per questo, viene punito duramente. In realtà il collegamento fra Sant’Antonio e il fuoco esula dalla leggenda sarda e affonda negli archetipi folklorici e mitologici più antichi. Nei giorni intorno alla metà del mese, infatti, nel mondo romano si indicevano feste (Ferie Sementine) in onore di Cerere (che aveva fra gli animali a lei collegati proprio il maiale, guarda caso) e la Terra, ancora una volta per impetrare il loro propizio intervento sulle sementi ancora sepolte ma già in procinto di uscire dalle zolle. Come in tutte le occasioni in cui c’era da invocare la buona stagione, erano, così, i grandi falò a “chiamare” il Sole che aiutasse la fecondazione delle zolle.
Questi riti di fertilità sono stati tradotti in festa cristiana: per Sant’Antonio, dovunque si preparano pani (rieccolo il rituale che evoca antiche culture mediterranee incentrate sulla primazia del cereale) che poi, benedetti, vengono distribuiti con funzione di buon augurio e protezione. A Villavallelonga, in provincia dell’Aquila, il retaggio dell’antica cultura alimentare-sacrale incentrata su cereale e legumi emerge con la massima chiarezza nell’uso di preparare, per Sant’Antonio, le fave cotte e la “panetta” (una focaccia di farina, sale, uova e anice).
Come si vede, i due elementi iconografici antoniani (il maiale e il fuoco) escono dalla sfera funzionale (il grasso per curare) e da quella mitico-favolistica (il bastone acceso) per collegarsi ad un antichissimo patrimonio sacrale pre-cristiano, mai cancellato e, come è evidente, solo domesticato e cristianizzato concentrando sul giorno della festa del santo tutta una serie di altre festività pagane di metà inverno.
Rimane l’altro punto: perché Sant’Antonio è il protettore degli animali.
Anche in questo ci aiuta l’ancoraggio con la cultura pre-cristiana. Durante le Ferie Sementine, i buoi (il “motore” del lavoro nel campo) venivano onorati, addobbati di fiori e lasciati a riposo. Così, Sant’Antonio, dalle feste per Cerere, ha ereditato, dopo il maiale, come si vede, anche il bue, e da questo ha poi esteso la sua protezione su tutti gli animali. Tutti? Beh, sì e no: vorrei far notare che l’iconografia attornia Antonio di uno zoo di animali che sono tutti domestici, e non è casuale che per la sua festa si benedicano le stalle, edifici dove si ospitano tutti animali “utili” (incluso il cane, ovviamente, e incluso il gatto che caccia i topi depredatori di grano). Non troverete, nelle immagini di Sant’Antonio, né orsi, né lupi o altri animali selvatici perché l’antica funzione protettiva pre-cristiana è ora indirizzata verso quegli animali che garantiscono, o con il lavoro o con le loro stesse carni, la sopravvivenza dell’uomo. Talvolta si legge che con il santo, in qualche immagine, non c’è il maiale ma il cinghiale. Gran puttanata: è sempre un maiale, solo che, fino a quando la razza suina mediterranea non è stata sostituita – in tempi recenti – da razze mitteleuropee a pelle rosea, più grasse e redditizie, il maiale “nostrale” era magro e di setola scura e poteva essere scambiato grossolanamente per un cinghiale. Se, in qualche caso, è raffigurato davvero un cinghiale è per un fraintendimento, non per una tradizione iconografica coerente.
Come ben sappiamo, il 17 gennaio ancora oggi la Chiesa accoglie gli animali per benedirli e, secondo la curvatura inevitabilmente miracolistica che il folklore impone a questi giorni ”sacri”, nella notte fra il 16 e il 17 gli animali stessi riacquistano la parola (perduta la “dodicesima notte” alla fine della Grande Festa). Ma in questo caso non cercate di ascoltarli: porterebbe una sfiga bestiale, secondo la tradizione; sicché se sentite il vostro gatto che chiacchiera e dice quel che pensa, per esempio, della crisi del Monte dei Paschi, fate finta di niente, giratevi dall’altra parte e riaddormentatevi. Che è poi quel che hanno fatto in tanti quando non i gatti ma altri soggetti dicevano quel che stava per succedere alla banca senese.
Resta l’ultima domanda: che c’entra il venerando anacoreta con la più incredibile antitesi del suo modo di essere? Che c’entra Sant’Antonio con il Carnevale? Carnevale (nel senso rigorosamente tecnico dell’anno liturgico) in origine sarebbero solo i giorni che precedono le Ceneri, ma poi, per estensione, questo tempo è stato agganciato genericamente all’Epifania. Però, quasi ovunque, in Italia come in altri Paesi europei, esso comincia ufficialmente proprio per Sant’Antonio, tanto che in molte di quelle feste che abbiamo già ricordato le maschere fanno parte integrante dell’apparato scenografico.
Ancora una volta, è l’ancoraggio con l’antichità pre-cristiana a suggerirci la spiegazione. Il Carnevale, per i cristiani, è l’ultimo periodo in cui si può mangiare la carne prima dei 40 giorni di penitenza necessari a preparare il corpo e lo spirito alla Pasqua di Resurrezione, ma è anche il periodo che marca folkloricamente, da millenni, il momento cosmico e “critico” della fine dell’inverno e dell’inizio della primavera. La maschera, con il suo contenuto semantico di contraffazione e nascondimento del reale, altro non è se non un simbolo e una componente di quel “caos indotto e controllato” che deve propiziare il nuovo ordine, tipico di un tempo ciclico sacrale mai scomparso.
Fra maiali e maschere forse Sant’Antonio si sentirà un po’ frastornato, ma il suo “dies natalis” (quello della morte eh! non quello della nascita: il santo muore al mondo e nasce nella gloria dei cieli) da un lato evoca il rimpianto per la Grande Festa d’inverno da poco conclusa; dall’altro, apre l’attesa per la nuova primavera e il trionfo del Sole e del nuovo raccolto, coinvolgendo in questa tutti gli aspetti della vita sulla terra: gli uomini, i campi e gli animali. Che, questi ultimi, per un giorno tornano ad essere quel che il Cristianesimo sembra aver messo incomprensibilmente fra parentesi (se non negato): per chi crede, creature del Padreterno esattamente come quell’animale a due zampe e (più o meno) cervello chiamato uomo.
Duccio Balestracci