Nell’anno del Giubileo dedicato alla Misericordia, Roberto Barzanti racconta lo stretto legame tra Siena, le contrade e la “virtù della carità”.
Il Palio ci ha sempre tenuto a sintonizzarsi con gli anni giubilari che anzi son stati sovente occasione di corse organizzate fuori dalle date canoniche. Questo due luglio non ha voluto mancare all’appuntamento pur lasciando perdere una straordinaria eccezione. E la Lupa s’è goduta il giubilo dell’anno… giubilare. Un giubilo al quadrato. Se giubilo significa una gioia che per esprimersi non trova parole figurarsi che cosa deve essere stata la tumultuosa esplosione che ha salutato un trionfo lungamente atteso. Il papa ha collegato il Giubileo al tema della Misericordia e non sono mancati momenti della componente religiosa del rito che hanno invitato a riflettere su questa dimensione della pietas popolare.
Misericordia – si sa – è al tempo stesso attributo dell’Essere supremo e comportamento seguito nell’operare per chi ha bisogno di aiuto: è “una qualità attiva – spiegano i dizionari di spiritualità – della virtù della carità”. È invocata per ottenere compassione e perdono, ma anche norma di umana e generosa fraternitas.
Le Contrade – si sa – non furono identiche alle Compagnie laicali, che erano precipuamente finalizzate ad un’attività caritatevole, ma ne introiettarono molti tratti e si svilupparono a lato, animate anch’esse da uno spirito di comunitaria condivisione. Tra la “Contrada et homini di Vallerozzi” e la loro parallela Compagnia si stabilì una tale compenetrazione che monsignor Francesco Bossi durante la sua visita del 1575 considerò le due entità come un tutt’uno.
Negli Oratori – e così nell’Oratorio di San Rocco – fiorivano legami destinati a rafforzare consuetudini, conoscenze, e se necessario reciproco sostegno. La Contrada è nata come una sorta di gruppo primario, aggregatosi secondo una quotidiana frequentazione di vicinato, e si è in prevalenza nutrito di finalità ludiche, il Palio su tutte. È stata ed è il vestito da festa della miriade di organismi che accolgono la febbrile voglia di stare di gente amante dei giochi e degli spettacoli.
A petto dell’istituzionale Palio d’agosto, decretato per corroborare la molla identitaria ed il senso di appartenenza civica, il Palio inventato dalle Contrade a metà Seicento sorge nell’atmosfera della fervida Riforma cattolica e canalizza sentimenti di devozione che si sposano con le benedette opere di Misericordia. La piccola effigie mariana di Provenzano, in onore della quale la baroccheggiante macchina da trionfo cittadino fu predisposta, era il venerato simbolo di una religiosità miracolistica, affezionata alle leggende, vissuta con ingenuo trasporto.
La statuetta – sia sa – è il superstite frammento di un gruppo di terracotta che raffigurava una “Pietà”, la lamentazione di Maria che piange il corpo martoriato del Figlio: una scena anch’essa di Misericordia. L’appellativo di “Mater Misericordiae”, cantato a squarciagola dai contradaioli quando le si rende omaggio, calza a pennello. È commovente ascoltare quei pochi versi nelle storpiature che massacrano il compunto latinorum: “Maria Mater Grazie / Mater Misericordie / Tu nos aboste pròtege / et morti sora sùscipe”. L’approssimativa trascrizione da una lingua non registrata nei vocabolari è facile da tradurre.
Di compagnie secolari tenute insieme dalla solidale pratica della misericordia Siena ne ha coniate una miriade. Si calcola che nel 1640 fossero almeno trenta, tutte dedite con slancio all’aiuto del prossimo. Dagli anni di formazione della civiltà comunale lo schema associativo della “fraternitas” riuniva migliaia di persone dedite alle buone opere. Era il premuroso “welfare” cristiano a lenire sotto le volte del Santa Maria della Scala dolori senza fine.
E quanti ospedaletti, quanti xenodochi specializzati punteggiarono la topografia della città! In età contemporanea non si fa che proseguire e rilanciare una vocazione dalle solide radici. Dalla compagnia laicale di Sant’Antonio abate nacque nel 1833 la Confraternita della Misericordia voluta da cittadini animati da “sincero amore per i miseri loro simili”.
E sorsero Asili, ognuno finalizzato a sovvenire fasce di popolazione che versavano in condizioni disperate: i carcerati, i convalescenti, i “vecchi impotenti”, le donne sole in attesa di partorire. Chi sale verso il Duomo s’inerpica per via di Monna Agnese: fu una Malavolti che mise a disposizione la sua casa per farne un ospizio. Di fronte erano insediati i Confratelli della Morte, che avevano per scopo di accompagnare i condannati nell’ultimo viaggio.
C’è un sintomatico dettaglio nel corteo che precede il palio. Il portainsegne che precede il rettore dell’Università alza un vessillo che reca una grande M dorata su fondo rosso. Ebbene: quella emme era il logo, diremmo oggi, della Domus Misericordiae, fondata – secondo la tradizione – dal beato Andrea Gallerani: luogo principe di questa volonterosa assistenza.
Santa Caterina rincuorò spesso con lettere di fuoco Messere Matteo, rettore della Chiesa della Misericordia: “Il tempo è nostro, figliuolo. Perocché è perseguitata la sposa di Cristo da’Cristiani, falsi membri e putridi. Ma confortatevi: ché Dio non dispregerà le lacrime, sudori e sospiri che sono gittati nel cospetto suo. L’anima mia nel dolore gode ed esulta, perocché tra le spine sente l’odore della rosa che è per aprire”.
E al Priore e ai fratelli della Compagnia della disciplina della Vergine Maria insediati all’Ospedale, si rivolse con accenti imperativi: “Adunque, fratelli, leviamci nel tempo presente, che ci è prestato per misericordia. Levisi la ragione col libero arbitrio, e cominciamo a rivoltare la terra di questo disordinato e perverso amore”. Qui “misericordia” significa piuttosto – traduce il termine ebraico hèn/hànan – favore divino, provvida alleanza, ed è la terza accezione d’un vocabolo dalle molte sfaccettature.
In un’altra missiva Caterina sembra echeggiare la terminologia consacrata dalle litanie e dagli inni. Manifesta il desiderio di vedere i fratelli della compagnia legati dalla carità: “e poi – aggiunge [Lettera 184] – per la santa e dolce congregazione la quale avete fatto nel dolce nome di Maria, la quale è nostra avvocata, madre di grazia e misericordia ”. L’invocazione della misericordia sscaturisce da una sensibilità che chiede di condire la giustizia con uno sguardo di cristiana compassione.
Perché, dunque, l’Università innalza nella passeggiata storica una maiuscola emme dorata? Il fatto è che da luogo eccelso di carità la Casa della Misericordia fu trasformata, dal 1412, in collegio per studenti e sede dello Studio grazie al benevolo e lungimirante consenso d’un pontefice, Gregorio XII, che non si scandalizzò della richiesta avanzata con tanta insistenza durante la sua permanenza in Siena.
Il nobile veneziano Angelo Correr era arrivato in città una prima volta il 4 settembre 1407, perché Siena avrebbe dovuto essere il centro dove accordarsi con l’altro papa per eliminare il Grande Scisma d’Occidente che affliggeva la Chiesa: e fu durante il primo soggiorno che i senesi ne approfittarono per ottenere tra le altre conquiste la conferma dello Studio generale, l’istituzione della facoltà di teologia e, appunto, la trasformazione della Domus di via della Sapienza in collegio.
Ma i posti di questo collegio Erasmus ante litteram erano così ambiti che furono in massima parte concessi a facoltosi scolari e non ai poveri che ne avrebbero avuto bisogno. Così talvolta finiscono anche le opere di misericordia. La memoria dalla Domus era tanto cara che l’Ateneo continuò – e continua – a fregiarsi con fierezza della M che individuava i locali della primitiva destinazione.
Roberto Barzanti