Un’analisi del corteo. L’unicità e l’orgogliosa essenza di un maestoso modo di essere.
Il forestiero che per la prima volta si affaccia sul grande scenario della Piazza del Campo, quando i primi rintocchi di Sunto accompagnano il maestoso ingresso del Corteo sul tufo, ha la sensazione di essere il passeggero di una macchina del tempo che l’ha riportato al XV secolo. Ovviamente, se non è uno schiavo digitale curvo sul suo smart phone, o è intento a spararsi narcisistici selfie.
L’elegante perfezione dei costumi dei figuranti, la dignità del loro incedere, la cerchia degli antichi palazzi, e quel cielo d’estate contro cui la vertigine della torre par vaporare antiche memorie, creano una magia insuperabile.
Eppure, un uomo di quell’epoca lontana non si riconoscerebbe minimamente nella processione che fa lentamente il giro della Piazza. In effetti, il Corteo storico (o la Passeggiata storica, come familiarmente si diceva una volta) non ha nulla a che vedere, nel suo ordinamento odierno, col Rinascimento. Esso, infatti, fu creato nella seconda metà del XIX secolo, quando Siena assurse agli onori di città simbolo del neogotico.
Prima di allora, la Piazza vide molti cortei salutare gli illustri ospiti della città con dovizia di carri trionfali ispirati a episodi mitologici, ma nulla che richiamasse l’epoca cui si ispira l’attuale Corteo.
I quattro anacronismi che mi accingo a illustrare non ne sminuiscono, però, il valore. Anzi: sono anacronismi ‘felici’, perché, osservati in filigrana, raccontano la storia di una Città-stato orgogliosa della sua antica civiltà e del suo ordinamento repubblicano.
Il Palio – è risaputo – non è, come le sue mille imitazioni, spettacolo per turisti. E’ un rito civile nel quale Siena si mostra al mondo nel pieno della sua bellezza. Concetto difficile da digerire in un’epoca in cui tutto è bottega, e si misura a suon di quattrini.
Per questo il Palio è un evento unico e inimitabile, che attinge dal Rinascimento – questo sì – non la precisione filologica delle citazioni, ma lo spirito di un’epoca in cui splendere è la cosa più importante. Infatti, con immenso stupore dei non Senesi, i contradaioli spendono di tasca propria cifre notevoli solo per l’onore di veder trionfare la propria bandiera.
Fatte queste doverose precisioni, esaminiamo questi benedetti anacronismi che la Storia, e non un coreografo professionista, ha disseminato lungo il Corteo.
Prima, però, dobbiamo fare un passo indietro per applaudire la carica di uno squadrone di Carabinieri a cavallo, che non manca mai di suscitare l’entusiasmo generale: uno spettacolo nello spettacolo. Pochi, tuttavia conoscono le remote origini politiche del gesto. Me le rivelò, molti anni fa’, un anziano avvocato fiorentino, appassionato di cose toscane. Sosteneva che i Carabinieri, dopo l’Unità dell’Italia, avevano sostituito i cavalleggeri granducali; grazie ai quali, con la loro uscita dalla Piazza dopo averla presidiata, il Granduca formalmente restituiva temporaneamente a Siena l’antica sovranità sul Campo.
Riconosceva così a Siena la natura di feudo imperiale concesso, nel 1557, alla dinastia dei Medici a titolo ligio, nobile e onorifico. Dunque: nessuna conquista da parte dei Fiorentini; solo l’acquisto, a fronte della cancellazione di un debito pari a ben due milioni di scudi, da parte di un ricchissimo e abilissimo parvenue (Cosimo I).
Gli anacronismi
- Arti e Contrade.
Accompagnato dalla famosa ‘Marcia medioevale del Palio’, composta alla fine dell’Ottocento dal maestro Formichi, il Corteo avanza. La musica – peraltro bellissima – scalda il cuore dei Senesi, anche se di medioevale non ha nulla: a parte, forse, la ripresa di temi antichi. Di particolare effetto è la chiusa con le chiarine che squillano insieme: a ‘diana’.
Il primo anacronismo che si nota è l’associazione di una corporazione di mestiere a ciascuna delle diciassette Contrade. Se per alcune di esse (Bruco/Setaioli, Nicchio/Vasai, Onda/Legnaioli, Pantera/Speziali) l’abbinamento ha fondamenta storiche, per altre si tratta, se non di pura fantasia, di forzature ispirate a fatti contemporanei. Basti comunque pensare che mai sono esistite a Siena diciassette corporazioni. Eppure, quest’anacronismo ha avuto in tempi recentissimi effetti positivi.
Infatti, qualche Contrada ha iniziato a riscoprire gli antichi mestieri a lei assegnati, avviando attività culturali ed educative ad essi ispirati.
- La rappresentanza dell’Università
Il secondo anacronismo è quello della rappresentanza dell’antica Università. E’ composta di quattro giovani paggi (gli studenti) seguiti da un venerando personaggio, che si presume essere il Rettore.
Il punto è che il Rettore, in antico, non era, come oggi, un professore, bensì uno studente: vale a dire una sorta di rappresentante sindacale che doveva vigilare sull’assiduità dei docenti.
L’anacronismo si presta, però, a evidenziare l’importanza internazionale dello Studio senese.
Tra i Rettori troviamo così un tal ‘Fuggerius’, latinizzazione di Fugger: un membro cioè, di un ricchissima famiglia di mercanti tedeschi, che contribuì col suo sostegno finanziario a far eleggere Carlo V a imperatore del Sacro Romano Impero! Fu uno dei tanti rampolli di grandissime famiglie europee, inviati, dal Medioevo fino al Settecento, ad addottorarsi a Siena, invece che, come si usa oggi, nelle più prestigiose università internazionali.
Per sincerarsene basta visitare, a San Domenico, la cappella di Santa Barbara, dove riposano gli studenti tedeschi (o meglio ‘svevi’) che ebbero la sventura di morire nella nostra Città.
C’è, tra gli appartenenti a tanti casati illustri, anche uno Stauffenberg: vale a dire, un antenato di quel Klaus che attentò senza successo alla vita di Hitler, il 20 luglio del 1944.
- Le sbandierate
Il terzo anacronismo è il più clamoroso. Riguarda le ‘sbandierate’; o, meglio: ‘il gioco delle bandiere’, che ogni Contrada esegue in punti fissi della Piazza. E’ anche l’oggetto principale delle scimmiottature del nostro Palio nelle cosiddette Feste storiche, che ormai vanno in scena in ogni città o borgo a vocazione turistica d’Italia. Infatti, il gioco delle bandiere è un esercizio praticato con continuità, coerenza filologica e stile classico soltanto a Siena.
Basterebbe, in proposito, menzionare che solo a Siena chi ‘gira la bandiera’ ha un nome preciso: ‘alfiere’. Altrove ci sono gli ‘sbandieratori’, che si esibiscono, nei costumi delle sagre o feste cosiddette storiche, in numeri da circo. Gli ‘sbandieratori’ sono molto organizzati. Hanno dato addirittura vita a due federazioni nazionali, e diffondono notizie assurde sull’origine del gioco delle bandiere. Lo fanno nascere in epoca comunale, in cui sarebbero esistiti ipotetici ‘segnalatori’, incaricati d’impartire ordini alle truppe “attraverso lanci e sventolii dei vessilli”. A parte il fatto che la parola ‘sbandieratore’ è un neologismo, non c’è nemmeno traccia che i ‘segnalatori’ siano mai esistiti; senza contare che nelle guerre del passato i comandi erano impartiti prevalentemente mediante suoni, poiché il suono è omnidirezionale e non richiede di distogliere l’attenzione dal nemico che magari ti sta di fronte, pronto a colpirti.
Franco Cardini, nella sua fondamentale opera sulla storia della guerra (Quell’antica festa crudele) ci dice che gli eserciti comunali erano una torma di cittadini non professionisti, perciò spesso armati solo con arnesi del mestiere e, soprattutto, di archi e balestre con cui lanciare nutriti nugoli di frecce per fiaccare, anche con insulti e provocazioni, il morale del nemico. Il quale, se andava in panico, veniva, infine, rotto dalla cavalleria, e massacrato dai vittoriosi inseguitori. Quindi, tattiche semplici, adatte a truppe poco addestrate (a parte la cavalleria pesante, che, comunque, eseguiva sempre una sola manovra: la carica frontale).
La nascita dell’arte di maneggiare l’insegna va, perciò, posticipata al 5-600, quando, secoli dopo Roma, compaiono nuovamente le formazioni organizzate e ben addestrate dei fanti: come quelle del Quadrato dei picchieri svizzeri, il Tercio spagnolo, le Compagnie dei Lanzichenecchi.
Quindi, niente a che fare con l’orgoglio dei liberi Comuni o gli splendori del Rinascimento, invocati dai soliti ‘sbandieratori’, che hanno copiato, senza capire, un anacronismo del nostro Corteo.
Un anacronismo che, in questo caso, non è un difetto ma una prova dell’autenticità di un evento di cui è regista la Storia.
Un decisivo argomento che smentisce le fantasiose collocazioni degli ‘sbandieratori’ in epoca comunale o rinascimentale è l’assenza in immagini riferibili a quelle epoche di bandiere adatte ad essere ‘girate’.
Bandiere quadrate, di dimensioni ridotte e munite di una corta impugnatura (tali quindi da consentire eleganti ‘fioretti’ o ‘mutanze’) le troviamo solo dalla seconda metà del XVI secolo: ad esempio, nelle incisioni di artisti tedeschi riferite ai Lanzichenecchi. (fig. 1)
L’onore di costudire la bandiera spettava all’aiutante del Capitano, ossia all’Alfiere, termine derivato dallo spagnolo ‘alférez’ (dove ancora significa ‘tenente’), a sua volta derivato dall’arabo ‘al farìs’ (cioè cavaliere, che con il maneggio della bandiera non ha nulla a che vedere).
L’Alfiere marciava con l’insegna spiegata della sua Compagnia, dietro al Capitano che guidava le truppe in parata o in battaglia. Era questo anche il modo con cui le nostre Contrade sfilavano in Piazza (fig. 2) fino alla nascita del Corteo storico; come si è detto dalla seconda metà del XIX secolo.
L’Alfiere, perciò, non trae il nome dal fatto di maneggiare la bandiera, ma, al contrario, maneggia la bandiera in virtù del grado che gliene concede l’onore.
L’evoluzione da un semplice ‘sbandieramento’ (come quello che vediamo eseguire oggigiorno dalle tifoserie negli stadi), a più complessi movimenti appare frutto di un’evoluzione naturale: non diversamente da quello che fa, con la mazza, chi dirige una banda.
L’origine militare dell’uso di girare la bandiera, è anche confermata dal “Trattato della Bandiera” del maestro d’armi, il padovano Francesco Ferdinando Alfieri (oggi ampiamente citato in tutti i siti dei nostri ‘sbandieratori’).
Nell’opera (che è parte di un più ampio trattato sull’uso della spada) compaiono numerose incisioni riguardanti le figure che l’alfiere può eseguire. Afferma, infatti, il maestro padovano: “sarà… il movimento dell’alfiere, o d’altra persona, che voglia per diporto maneggiare l’insegna, libero ma ben composto grave, ma però militare…”.
Sorge spontanea allora la domanda: perché l’Arte di maneggiare l’insegna è rimasta autentica solo a Siena? Una risposta la possiamo trovare nella presenza a Siena, per molti secoli, di una numerosa colonia di artigiani e studenti tedeschi.
Trattati analoghi, antecedenti a quello dell’Alfieri, ma in lingua tedesca, suggeriscono, infatti, che l’arte della bandiera potrebbe esser nata nel mondo militare germanico, dove per prima s’impose la necessità di una disciplina ferrea dei soldati (ormai sudditi di uno stato, o professionisti, piuttosto che cittadini in armi) indotti a identificarsi nell’insegna di un Reggimento o di una Compagnia.
Che esistesse un suo coinvolgimento con le Feste senesi della ‘Nazione’ tedesca è suggerito da uno scritto, in cui Virgilio Grassi riferisce del Palio straordinario, con annesso Masgalano, promosso da due Principi della Casa di Liechtenstein, studenti della nostra Università, corso il 9 settembre 1658 per ricordare, a cinque anni di distanza, la liberazione di Vienna dall’assedio dei Turchi.
Il Palio fu vinto dalla Selva e il Masgalano andò all’Onda. L’evento suscitò grande entusiasmo non solo tra le vincitrici, ma anche nelle altre, che si unirono tutte, recandosi ‘a servire’ con le loro insegne i due Principi, facendo fuochi e ‘girando le insegne’.
Un’altra notizia del coinvolgimento della stessa colonia nel Palio (questa volta quello ‘alla lunga‘ che si continuò a correre ogni anno, fino a quando Napoleone non lo abolì).
Leggiamo, infatti, nel Diario Senese’ di Gerolamo Gigli alla data del 15 agosto: “Dopo Vespero l’inclita Nazione Alemanna cavalca pel corso in compagnia della Nobiltà senese avanti il Serenissimo Governatore, e si fa passeggio dal Palazzo di S.A. fino al Monistero del Santuccio, dove stanno alle mosse i Barbari (sic) che corrono al Palio di lì fino alla Piazza del Duomo”.
Il rapporto col mondo militare germanico è suggerito anche dai molti condottieri senesi, che, in secoli diversi, servirono sotto le insegne imperiali: da Ottavio Piccolomini a Tiburzio Spannocchi, a Paolo Amerighi, eroe della battaglia al ponte della Dreva; senza dimenticare il Principe Mattias de’ Medici, Governatore dello Stato senese, appassionato di barberi per il Palio ‘alla lunga’, che si distinse nella Guerra dei Trent’anni dalla parte degli Imperiali.
C’è una cosa, fino a oggi non evidenziata a sufficienza: la relazione tra scherma e gioco della bandiera. Ne ‘La Bandiera’, alcune delle figure del testo, mostrano esercizi da compiere brandendo insieme spada e bandiera. Quindi, l’Arte del maneggiare l’insegna, può essere vista come un complemento dell’Arte di maneggiare la spada: forse, come una forma di ginnastica preparatoria, per allenare muscoli e accrescer coordinazione di movimenti. Sempre Francesco Alfieri ci dice che. “L’esercizio della Bandiera sarà sempre da commendare imperocché in esso il piede si fa pronto, si rende pieghevole la vita, la mano acquista forza, e si discioglie il braccio…”.
E che spada e bandiera potessero in certe occasioni essere manovrate insieme, oltre ad essere l’oggetto delle ultime quatto lezioni del Trattato, ce lo dice anche il cronista Guglielmo Palmieri a proposito di un caso capitato il 3 novembre 1650, quando l’Alfiere del Drago, tal Massimiliano Franceschini, “…giunto davanti alla Corte granducale, presente a quella bufalata, leggiadramente maneggiò l’insegna ed innalzandola tirò mano alla spada, giocando insieme l’insegna e la spada”.
Se girare la bandiera, originariamente, è arte militare connessa con quella di maneggiare la spada, essa si evolve poi a Siena, grazie all’estro di tanti Senesi che se la tramandano di padre in figlio, per generazioni, mentre, in altre città, se mai è esistita, se ne perde la memoria. Così, alle classiche ‘mutanze’ descritte da Francesco Alfieri, se ne aggiungeranno di nuove: come il ‘salto del fiocco’ ideato dal famoso Mastuchino, alfiere storico della Nobile Contra dell’Aquila, e, in tempi molto più recenti, quelle nate, giocando in due (e, soprattutto, insieme) la bandiera.
L’ultimo indizio dell’origine indipendente dei due alfieri cade nel 1928, quando si decide che i disegni delle due bandiere siano uguali, e non più diversi, come si era usato fino allora.
E’ quindi ridicola l’affermazione che compare in un sito di ‘sbandieratori’, secondo cui le sbandierate sarebbero rinate nel 1936, a Firenze, col Calcio in costume!
Dunque, se consideriamo solo la foggia quattrocentesca delle monture del Corteo, le ‘mutanze’ dei nostri alfieri sono certamente un anacronismo, se si bada all’esattezza storica, che è propria di una rievocazione. Se invece si guarda al Palio nel suo complesso come a un rito, sono la prova della continuità di un evento plasmato dalla Storia, ancora vivo e vitale.
- Il Carroccio.
Quando il serpentone multicolore avvolge le sue ultime spire, ecco il Carroccio trainato da due paia di giganteschi buoi di razza chianina. Gli squilli delle chiarine ora non hanno più tessitura ottocentesca, ma un’aspra, bellicosa tonalità. La Piazza, un po’ appitonata dall’ipnosi dei tamburi si ridesta. Il Carroccio par veleggiare, grazie alla Balzana tesa da una brezza serale.
Eppure, a dispetto dell’emozione che suscita nel cuore di ogni vero Senese, non è possibile esimersi dal notare che esso è il quarto anacronismo del Corteo.
Infatti, il Carroccio intorno al quale gli eserciti comunali si raccoglievano (per tutti valga quello della battaglia di Legnano) era ormai un pezzo da museo già nel XIV secolo. Il predecessore del nostro Carroccio attuale era, invece, assai più in linea col contesto quattrocentesco del Corteo. Era, infatti, anche se pure lui chiamato Carroccio, un carro trionfale: decorato, sulle sponde dorate, con le effigi delle diciassette consorelle in forma di ninfe.
Quello attuale, più austero (su cui, però, non è chiaro perché vi trovino posto i gravi Provveditori di Biccherna, invece dell’altare col sacerdote a invocare la protezione divina sui combattenti della sua parte), reca, sulla sponda posteriore, una scritta che merita un commento.
Recita: “O Regina Patrum summa dignata corona perpetuo Senam protege tuam”.
E’ quanto, ormai, si legge a fatica sotto l’affresco quasi perduto sul secondo arco della Porta romana. Pare che l’autore ne sia stato lo sfortunato suocero di Pandolfo Petrucci, Niccolò Borghesi.
Pandolfo, infatti, in età matura, signore ormai assoluto di Siena, s’innamorò perdutamente di una bellissima popolana: Caterina di Salicotto, detta, per il personale alto e slanciato, la ‘Spada a due mani’; e ne fece la sua amante, togliendola al marito, un semplice sellaio.
A Niccolò, tuttavia la cosa non andava giù, e non perdeva occasione, in pubblico come in privato, per rampognare il fedifrago genero. Alla fine, Pandolfo si levò il fastidio, facendo pugnalare a morte dai suoi bravi il povero vegliardo.
Paolo Neri