Hannah Arendt, scrittrice e filosofa ebrea scampata ai lager nazisti, fu inviata dal giornale New Yorker ad assistere al processo che si tenne nel 1961 a Gerusalemme a Eichmann, catturato nel suo nascondiglio in Argentina. Da quel reportage tirò poi fuori un libro dal titolo “La banalità del male” nel quale sostiene che il male non ha bisogno di grandi spiegazioni, a volte, è solo banale.
Tutto questo mi è tornato in mente, con tutte le dovute proporzioni e differenze, raccogliendo e scrivendo la storia di Giulio. È appunto una storia banale anche se il suo contenuto racconta di una vita disgraziata. Così banale e emblematica che, almeno in un certo periodo storico, potrebbe essere presentata come un caso di scuola, tanto è caratteristico dei ricoveri in manicomio nei decenni di fine Ottocento.
Cosa c’è infatti di più banale se in quegli anni eri un contadino con qualche problema di strane idee in testa, e se per questo, com’è facile intuire, rendevi poco sul lavoro, e se facevi parte di una famiglia numerosa dove ogni braccia era necessaria all’economia contadina e tu invece ti sentivi ribelle alla gerarchia familiare, cosa poteva capitarti – dicevo – di più banale di essere ricoverato al manicomio? Per un po’ i tuoi cari potevano anche tollerarti, poi era “normale” che qualcuno si annoiasse e ti portasse al manicomio. E lì dentro in quel periodo cosa poteva succederti? Che, stante le poche cure disponibili, e in mancanza di un incontro fortunato con qualcuno che ti potesse capire e si interessasse di più a te, rompendo quel tuo guscio di sfiducia, poteva succederti che – si diceva – lo stare lì dentro sarebbe servito a poco. Forse potevi uscire per un po’ ma poi qualcuno, magari tuo fratello scocciato dei tuoi discorsi strani, ti avrebbe riportato lì dentro e se all’inizio le visite dei familiari erano più fitte, piano piano si scordavano di te. Anche i medici che nei primi mesi di ricovero parlavano con te spesso, vista la tua incapacità di cambiare e modificare un po’ il tuo comportamento e le tue idee, alla fine ti lasciavano perdere e magari annotavano qualcosa in cartella una volta all’anno o giù di lì. Ed era inutile ribellarsi e fare il matto, tanto ti legavano al letto e lì rimanevi per un po’, e così il fisico pativa e cominciavano le malattie. Ed alla fine cosa ti poteva capitare di più banale se non morire là dentro dimenticato da quasi tutti?
Giulio nasce nel 1848 nelle masse di Siena, locuzione che intendeva nelle campagne intorno a Siena. Al momento in cui si trova in manicomio viene descritto così: altezza normale (166 cm), corporatura robusta, con occhi castani chiari, capelli neri e con un paio di baffi che invece sfumano sul biondo. Poco viene detto sulla sua famiglia, in cartella viene riportato nel corso dei ricoveri il suo contrasto con un fratello, è lecito pensare ad una famiglia numerosa, ma nulla di più. La sua vita da un certo punto in poi si svolge, pur con una lunga interruzione, nella penombra del manicomio dove finisce per morire nel 1906 a 58 anni.
In cartella è riportato di qualche precedente psichiatrico ma il primo ricovero è nel maggio del 1880. Quando si presenta ha allucinazioni visive e auditive, in parole povere sente le voci e vede ciò che non c’è. E cosa vede? Demoni e serpenti, rumori strani che gli altri non odono. Si impaurisce per la vista di un cane o di un gatto, animali che interpreta come suoi nemici, pensando che alcune persone potessero mutare il loro aspetto e assumere quelle forme. Teme che tutti lo vogliano morto e dice anche che da molto tempo non vive a casa ma nell’Inferno. Tutto pare confermare una situazione delirante colorita da temi religiosi, tanto che racconta di aver spesso consultato fattucchiere e ciarlatani vari. Ma dice anche che di ritorno da quelle consultazioni pensava sempre che con le medicine prescritte volessero avvelenarlo.
Con i medici la situazione non cambia, la possibilità di affidarsi con fiducia a qualcuno di loro non scatta mai, anzi. È così agitato e contrario al ricovero a cui è giunto, che nei giorni immediatamente successivi i medici sono costretti a “fissarlo” al letto (insomma a legarlo) perché ha un comportamento “disordinato” e probabilmente aggressivo. Poi Giulio verosimilmente “annusando” l’ambiente circostante, i discorsi dei medici, delle “guardie” (così si chiamavano allora gli infermieri), degli altri malati cambia comportamento, diventa calmo e socievole. A metà luglio viene inviato ai “lavori della terra”, un po’ di ergoterapia che accetta. Ecco che il medico baldanzosamente scrive: si può ritenere completamente ristabilito, tanto che a fine luglio (sono passati neppure due mesi) viene rimandato a casa.
Ed il 30 luglio viene dimesso. Immaginate la delusione di tutti, quando solo la sera successiva viene riportato in uno stato pietoso, agitato, maniaco, in preda ai suoi discorsi strani, altro che successo! È questo uno degli snodi fondamentali di questa storia. I parenti, forse leggermente irritati, fanno notare che le sue idee non sono affatto cambiate. Interrogato conferma che le sue idee non erano mai cambiate, crede sempre che gli spiriti siano la causa dei suoi mali, ma in ospedale non lo diceva perché se no faceva ridere tutti, si confidava solo con un altro paziente.
Ecco, con queste brevi note, sono già designati due universi paralleli e per nulla comunicanti tra loro: i medici e tutti i curanti da una parte e i malati con le loro strane idee che tengono per sé o al più confidano solo ai loro simili. Forse l’essenza della cura, in tali casi, sta nel continuo tentativo superare quella impossibilità di intendersi, cosa per nulla facile, a volte forse impossibile, ma che andrebbe sempre tentata. Nel primo spezzone di ricovero i medici ci provano, parlano con lui al ritmo di una volta alla settimana. Lui, diffidente e lontano, non vuole tanto parlare, si agita si ribella, spesso è legato al letto. Gli vengono offerte le cure a disposizione in quel tempo: bagni tiepidi a scopo calmante, decotto di china e lattato di ferro come ricostituenti per ridargli appetito, un po’ di cloralio perché dorma tranquillamente la notte.
Adesso bisogna ripartire da capo, magari con qualche cura più incisiva: si applicano le mignatte (le sanguisughe) ipotizzando una iperemia cerebrale (se c’è troppo sangue alla testa, così lo diminuiamo) e si assume un ritmo più lento nelle visite, forse indice di un po’ di pessimismo sulla possibilità di fare qualcosa per lui.
C’è in cartella una nota un po’ criptica che fa anche pensare all’utilizzo di morfina per calmare Giulio così tanto agitato, chissà. Il suo fisico sottoposto probabilmente ad una tempesta emotiva interna fatta di delirio e ribellione, comincia a dare segni di stanchezza, prima viene curato per una cherato congiuntivite, poi per una blefaro congiuntivite granulosa. Tutte queste cose lo tengono fermo in infermeria per diverso tempo e ne rallentano l’inserimento nella vita del manicomio. All’inizio rifiuta le medicazioni agli occhi, probabilmente dolorose e fastidiose, con lui bisogna discutere ogni cosa, oppone resistenza su tutto. Al mattino fa storie per alzarsi, vorrebbe rimanere sempre a letto. Pare di sentire la descrizione di un bambino capriccioso e oppositivo. Poi si manifesta una febbre gastrica, ma nel gennaio dell’81 è finalmente guarito di questi malanni e inserito nella terza sala dell’edificio Centrale.
I medici sembrano non occuparsi di lui per diverso tempo, durante il quale la situazione migliora, lavora e mantiene un contegno buono. La nota successiva a quella di febbraio ’82 arriva nel settembre, per segnalare un nuovo tentativo di dimissione. Questa volta l’osservazione e la cura sono state più lunghe, è durata più di un anno e tutti sperano che a casa vada bene.
Invece tutto si ripete di nuovo. Due giorni dopo torna in stato di forte esaltamento. In questa successiva tranche di ricovero viene spesso legato, tanto che si manifestano ulcere cancrenose nei punti in cui i legacci sfregano ai polsi ed ai talloni. Ancora molta infermeria per farlo guarire, anche se quelle brutte cicatrici di un colore vinoso e scuro non guariscono mai del tutto. È necessaria tutta l’estate del 1882 perché le lesioni risarciscano e quando lo sono viene proposto a Giulio di alzarsi e ritornare ai lavori. Lui oppone un atteggiamento ipocondriaco, il medico dice che non si può insistere troppo e lo trattiene in infermeria come lui stesso chiede. Ma l’aspetto generale è buono e per Natale del 1882 si può registrare che riprende una vita sociale con gli altri malati. Da questo punto le note dei medici assumono un ritmo annuale, dal natale del 1882 si va a quello dell’anno dopo. Ha lavorato bene, lui stesso dice (ma chissà se ci crede davvero?) che ha pensato meno alle solite cose, ha lavorato nei campi, a intrecciare lo spalto, alla lavanderia, ha tenuto buoni rapporti con gli altri. Così nel novembre del 1884 viene di nuovo dimesso.
In pratica il ricovero è durato quasi cinque anni con due brevi tentativi di dimissioni.
Adesso Giulio affronta un lungo periodo di vita a casa, in cui evidentemente nonostante le sue stranezze riesce a ritagliarsi un ruolo, passano quasi 18 anni.
L’ultimo capitolo comincia nel marzo del 1902. Rientra al manicomio perché il suo comportamento per i familiari è molto peggiorato, anche se mai è stato del tutto normale: gatti rossi e altre bestie lo perseguitano. Emerge poi chiaro, senza neppure bisogno di chiedere, il conflitto familiare. Sono loro – afferma Giulio – che non lo vogliono, specialmente un fratello lo odia e non lo vuole a casa. Anche questo ricovero è caratterizzato da cure mediche e da una sintomatologia che vira sempre più verso la depressione ipocondriaca. Teme di avere tutti i mali, è scoraggiato e depresso, lavora poco e soggiorna spesso in infermeria. Durante uno di questi periodi in cui in cartella si annota che lo stato fisico è molto scaduto, si manifestano convulsioni che mai prima aveva avuto. È l’ultimo capitolo che attraverso lesioni vascolari cerebrali o più probabilmente per via di una patologia tumorale cerebrale lo porta a morte nel gennaio del 1906. Termina così a 58 anni la sua vita, dimenticato presto da tutti e rimpianto da nessuno.
L’aver raccontato la sua vita, l’aver spulciato la sua cartella e le sue note cliniche che da secoli nessuno guardava, è solo una minuscola restituzione, ma sono contento di averlo fatto per lui, per Giulio, tipico signor “nessuno”, uno dei molti che la vita si scorda indietro.
Andrea Friscelli
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