In quest’ultimo periodo si è spesso parlato del padiglione Conolly e c’è una parola che è di solito associata a quell’immobile: panopticon, parola derivante dal greco di facile interpretazione: tutto vedere.
Vorrei dedicare il pezzo di oggi proprio al panopticon, svolgendo qualche riflessione tra le molte che quell’idea ha sempre stimolato. Il panopticon, infatti, è un vero e proprio serbatoio di considerazioni anche di grande attualità.
Sappiamo che il modello del vero panapticon, categorizzato da Jeremy Bentham nel suo “Panopticon or the inspection house”, prevedeva che le celle, disposte a raggera, avessero pareti trasparenti davanti e dietro (ma non sui lati, per impedire che i detenuti – pazienti solidarizzassero tra loro), in modo che la luce permettesse di vedere e controllare in ogni ora del giorno e della notte le attività del recluso.
Da una torretta, simile a un faro e posta al centro della raggiera, il guardiano controllava, attraverso persiane schermate che così non permettevano di capire se in quel momento si era osservati o no. In più attraverso una sorta di precursore del telefono, costituito da un insieme di tubi, presente in ogni cella, il custode poteva, quasi fosse la voce di Dio, farsi presente col condannato per dare raccomandazioni, proibizioni ecc.
Quello che m’interessa oggi precisare non è tanto il punto di vista costruttivo architettonico, ma quello del metodo “educativo” o rieducativo che stava dietro a quel congegno costruttivo.
Nella concezione di Bentham il carcerato era privato in sostanza di ogni privacy, rimanendo sempre in vista del carceriere che si prendeva anche il vantaggio di non essere a sua volta visto. Bentham addirittura dice che, giacché non sarà possibile scrutare in ogni momento ogni soggetto, è importante che quelli lo pensino possibile (di essere sempre sotto osservazione) perché questa sensazione introiettata dal detenuto – paziente è il nucleo centrale del suo metodo.
In sostanza abbiamo da una parte il massimo della trasparenza che finisce per “sfondare” l’immagine psicologica del detenuto di cui non è più possibile apprezzare i chiari e gli scuri che si costituiscono con trasparenza e opacità; dall’altra invece il carceriere non ha faccia, forse ha solo una voce e mantiene la sua totale opacità. In tal modo si stabilisce un gradiente molto evidente: tutto il potere di conoscere l’altro è dalla parte del carceriere, mentre il detenuto è solo un oggetto passivo privo di qualunque possibilità di conoscenza.
In quel periodo probabilmente si pensava che questo metodo finisse per “spengere” nel soggetto l’identità cattiva e per introdurre nella sua mente quella voce della coscienza che aveva fatto fino allora difetto e che poteva ripulire la personalità preparandola alla sua riconversione verso il bene.
Nel penitenziario di Porth Arthur, in Tasmania, nella sezione dedicata agli incorreggibili, la cosiddetta “Separate Prison”, tale metodologia era portata ai suoi estremi. In quelle celle non solo i detenuti non vedevano nessuno, ma era perfino loro inibita l’auto osservazione. Infatti, ogni superficie riflettente era bandita e i detenuti passavano la loro vita in totale solitudine, tranne l’assistere alle funzioni religiose. Per permettere loro di assistere alla messa era stato ideato un complicato meccanismo di paratie di legno per cui i detenuti, affluendo in chiesa, potevano vedere solo l’altare e mai guardare i loro compagni. Anche qui il criterio, simile a quella pratica che si definisce lavaggio del cervello, era quello di “ripulire” la personalità del recluso dalla cattiveria e dargli invece gli stimoli del bene per ricostruirsi.
Ma – ci possiamo chiedere – è proprio necessario per curare o rieducare qualcuno, sia pure tra i casi più difficili, prendersi tutto quel potere?
Dico subito che oggi la pensiamo in modo differente, ma, anche per storicizzare tutta la cosa, allora probabilmente il fatto che tale metodo abbandonava definitivamente i maltrattamenti fisici sembrò un notevole passo in avanti. Certo i maltrattamenti si spostavano su un altro piano, tutto mentale, finendo per negare ogni significato alla soggettività del detenuto, i cui prodotti mentali erano classificati, senza dubbi o tentennamenti, come negativi e privi di senso.
Quest’assolutismo, esente da alcun dubbio, è la negazione di ogni approccio terapeutico più moderno. Oggi la terapia non è vista come qualcuno che sa tutto e parla a qualcun altro che invece non sa nulla (di sé) e può solo ascoltare, ma semmai come la collaborazione tra due menti in cui i pensieri di entrambi hanno pieno diritto di cittadinanza e che vanno compresi al meglio, a volte da una visuale un po’ diversa da quella che il soggetto che li ha prodotti ha sempre adoperato. Inoltre è diffusa l’idea che alcune aree di opacità siano salutari e quindi l’obiettivo di sostituirle con l’iper trasparenza benthamiana è non solo sbagliato ma dannoso.
Sembra quasi che la volontà terapeutica implicita nel panopticon sia a un certo punto sfuggita di mano alle pur buone intenzioni di Bentham, trasformandosi in una sorta di ossessione sempre più presente nella società moderna. Si pensi a “1984” di Orwell in cui la presenza del Grande Fratello pare quasi esattamente disegnata sul custode di Bentham. Come poi quella dizione sia diventata il titolo di una trasmissione di grande successo rientra in quelle perversioni che la nostra attuale società a volte eleva a esempi positivi.
Però non si deve pensare che l’ossessione di essere spiati e frugati nella propria intimità sia stata innescata solo dagli effetti più o meno voluti del “nostro” panopticon.
Voglio, a tal proposito, terminare queste brevi note citando la storia di una ricoverata del San Niccolò che risale al 1880. Devo questa storia al bel libro “Follie separate” di Martina Starnini, edito da Pisa University Press nel 2014.
Giuseppa P. viene ricoverata in Ospedale Psichiatrico all’età di 42 anni e all’inizio non si esprime molto. Poi con la confidenza maggiore stabilita con il suo medico, riferisce le sensazioni per le quali le sembrava di vedere delle persone sue vicine di casa che stavano con il cannocchiale sul tetto della sua abitazione per spiare le sue più piccole e intime azioni. In questo modo le producevano quell’inquietudine che essa provava e della quale non sapeva rendersi ragione.
I pensieri di questa donna vissuta tanto tempo fa colpiscono per l’affinità con gli scopi che in fondo Bentham con il suo metodo si proponeva con il panapticon.
Ma Giuseppa non aveva ancora potuto sperimentarlo semplicemente perché non fu mai ricoverata in quel padiglione.
Il Padiglione Conolly è inserito ne “I luoghi del cuore FAI” per il 2016. Ogni firma è preziosa ed è possibile farlo on-line collegandosi al sito http://iluoghidelcuore.it/luoghi/87949, oppure recandosi in una delle molte attività commerciali che a Siena aderiscono all’iniziativa.
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