Intervista a Silvia Lelli , fotografa che ha immortalato le imprese musicali, tra gli altri, di Riccardo Muti. Venerdì prossimo aprirà la sua mostra “Neon Collection / Neon Connection” alla Seipersei Gallery di Siena
Essere un fotografo artistico non deve essere facile ai nostri tempi. Ogni giorno veniamo letteralmente bombardati da immagini di ogni tipo. Passano, ci catturano per massimo 2 secondi, si fanno scordare. Come può, invece, farsi spazio la fotografia di qualità? In che modo è possibile non farla annegare nella banalità? Silvia Lelli, fotografa di teatro, danza e musica – ha seguito per anni il maestro Riccardo Muti e gli spettacoli del Teatro della Scala -, propone la sua ricetta a giovani e non.
L’occasione per vedere materialmente il suo lavoro è quello di visitare, alla Seipersei Gallery di via Mentana, la mostra fotografica “Neon Collection / Neon Installation” che verrà inaugurata questo venerdì e resterà aperta fino al 13 aprile. L’ allestimento fa specifico riferimento al campo delle arti performative, con una incursione nella “modern dance”, enfatizzando la presenza costante, quasi ossessiva, dell’oggetto neon nelle sue varie forme e nei suoi usi.
Che cos’è “Neon Collection / Neon Installation”?
«E’ un lavoro che parte da immagini che ho scattato verso la fine degli anni ’70. Allora ero, dal punto di vista fotografico, totalmente immersa nelle “performing arts”. In quegli anni mi accorsi, seguendo ogni sera qualcosa di diverso, che il neon stava entrando sempre di più nelle performance. Per esempio c’erano danzatori che ballavano con il neon sulle spalle. Avendo fatto molte foto di queste esibizioni, pensai di fare una selezione delle immagini per proporre qualcosa di nuovo. Estrapolandole dal loro contesto, potevo così creare una sequenza che riflettesse quello che volevo esprimere. Raccolsi quindici immagini e su ognuna di esse ci feci mettere pezzi di neon, in modo che questo si sovrapponesse al neon fotografico. Il progetto fu poi esposto all’Arengario di Milano, quello che oggi è il Museo del Novecento. Ora Stefano Vigni mi dà la possibilità di ripensarlo a distanza di anni. Penso che possa esser capito meglio adesso che allora».
Il tempo ha modificato il senso di queste immagini?
«Riguardandolo ho deciso di predisporlo esattamente come l’avevo pensato. Mi ritrovo perfettamente nelle scelte e nelle sequenze che avevo fatto. E’ un lavoro formato da pezzi unici e artigianali».
Il neon, essendo una fonte di luce, può modificare la percezione della foto?
«Il neon fotografato durante la performance era l’unica fonte di luce per l’immagine che stavo facendo. Così, anche il neon che io sovrappongo illuminerà da solo l’installazione».
Cos’è che distingue la fotografia artistica da quella comune?
«Secondo me quello che accade prima di scattare, il lavoro, il pensiero e la costruzione che ti porta a quell’immagine specifica. A volte succede che un profano, guardando una fotografia, dica “questa la posso fare anche io”. Succede anche in altri campi, per esempio nella pittura. Le cose che fanno davvero la differenza sono l’artista, la sua storia e il momento in cui è stato fatto un lavoro. E’ chiaro che anche l’immagine stessa possa colpirti, ma bisogna sempre vedere il percorso dell’autore».
Secondo lei cos’è più importante: la costruzione dell’immagine o il “momento giusto” in cui scattarla?
«Dietro al “momento giusto” c’è sempre un percorso preciso. Nella mia esperienza con la fotografia di spettacoli e di concerti, specialmente di musica classica, ho capito che, quando scatti una certa foto, c’è una scelta che arriva da decisioni precedenti. Il “momento giusto” non è mai casuale».
Come si fa a far suonare un’immagine?
«E’ una domanda che mi sono fatta spesso. Non dimentichiamoci che la fotografia è muta e bidimensionale, quindi, per assurdo, se c’è una cosa che non dovrebbe rappresentare è proprio la musica. Un po’ come la foto di danza, che va proprio contro all’essenza stessa del ballo, cioè il movimento. Nella fotografia di musica cerco di far uscire un ritmo e un suono. C’è molto differenza, ad esempio, tra una foto e l’altra di un’orchestra che suona. Devo riuscire, attraverso l’incrocio di diversi movimenti come possono essere quelli fatti dalle braccia del direttore d’orchestra o dai violinisti che “spingono”, a far scaturire un suono. Così nella danza il mio compito è quello di fermare un attimo che possa evocare qualcosa di molto profondo che magari è sfuggito allo spettatore».
Per realizzare questo processo quanto è importante che il fotografo musicale conosca ciò che sta andando a fotografare?
«Direi che è la cosa fondamentale. Perché sono diventata una fotografa in questo campo? Perché forse è stata la scusa per godermi gli spettacoli o i concerti. Fotografare la musica non è scattare, è ascoltare. Cinque scatti possono bastare per realizzare una bell’immagine. Se invece arrivi allo spettacolo pensando di scattare di continuo sbagli tutto».
Come può un fotografo ritagliarsi l’attenzione del pubblico ai tempi di Instagram e della foto compulsiva?
«Il problema della foto compulsiva esiste e lo noto molto nei giovani. La questione nella fotografia non è quanto scatto, ma come ho costruito il momento in cui lo faccio. Nel rettangolino della macchina fotografica c’è dietro qualcosa che mi ha preparato ad arrivare lì. Lo scatto compulsivo, ne parlo spesso con i ragazzi, rischia di distrarti. Questo porta il fotografo a non saper scegliere tra ciò che ha fatto».
Visto che lei insegna ai giovani, potrebbe dare tre consigli per diventare bravi fotografi?
«Il primo è quello di vedere molta pittura, non fotografia. Guardando quest’ultima c’è il rischio di tendere alla copiatura. Suggerisco, in particolar modo, di studiare la composizione dell’immagine in Paolo Uccello e Piero della Francesca.
La seconda cosa che consiglio è di leggere, perché spesso la costruzione di una foto avviene dopo un percorso di lettura.
Il terzo suggerimento che posso dare è quello costruirsi dei progetti semplici. A volte vedo giovani che hanno in mente proposte complicatissime, che poi non riescono a portare in fondo. Per riuscire a esprimere la creatività ci vuole anche sofferenza».
Emilio Mariotti