Intervista a Orfeo Bossini de I Violini di Santa Vittoria, che giovedì porteranno al Teatro dei Rinnovati la storia del liscio emiliano
Ai più la parola “liscio” fa venire in mente le coste romagnole e il sorridente viso di Raoul Casadei. In realtà, questo genere musicale appartiene anche alla tradizione musicale emiliana. Questo giovedì I Violini di Santa Vittoria faranno conoscere al pubblico del Teatro dei Rinnovati questo liscio semisconosciuto, perso e ritrovato. L’esibizione dei cinque musicisti emiliani chiuderà il cartellone di Rinnòvati Rinnovati e fa parte della rassegna “Tradire”.
Davide Bizzarri, Orfeo Bossini e Roberto Mattioli ai violini, Ciro Chiapponi alla viola e Fabio Uliano Grasselli al contrabbasso suoneranno materiale composto molti anni fa da un gruppo di braccianti che vivevano in una frazione della bassa reggiana, Santa Vittoria nel comune di Gualtieri.
“I Violini di Santa Vittoria” è un progetto che vede musicisti diplomati al conservatorio impegnati nel recupero di una musica popolare. Orfeo Bossini spiega le ragioni di questa scelta particolare.
Il liscio proposto in teatro è una specie di rivincita per questa musica popolare?
«Da un certo punto di vista sì, perché è un modo per riconoscerne il valore anche artistico. I brani che suoniamo sono belli e scritti bene. E’ la rivincita, inoltre, della storia che c’è dietro a queste composizioni. Sono nati per una precisa funzione sociale, cioè il ballo, e tutto questo noi lo raccontiamo».
Perché voi, che siete musicisti diplomati al conservatorio, avete scelto di diventare I Violini di Santa Vittoria?
«Anzitutto non è stato facile per nulla diventarlo. Perché, se è vero che è difficile per un musicista popolare dedicarsi alla musica colta, è altrettanto vero il contrario. Bisogna vincere qualche ritrosia, cosa che raccontiamo nella nostra presentazione. L’interesse verso queste musiche è soprattutto di carattere storico. Rievocano un mondo che non c’è più, arcaico e contadino. Tutto è finito negli anni ’60, quando l’Italia è diventata un paese moderno. A differenza di quelli romagnoli, i musicisti emiliani non si sono “riciclati” in una dimensione più commerciale. La nostra, quindi, è un’operazione musicale, storica e culturale di sensibilizzazione verso una memoria».
Ci può illustrare alcune differenze nel suonare il liscio nelle diverse zone dell’Emilia-Romagna?
«Cambiano principalmente gli organici. Questi, di conseguenza, determinano un certo o un altro tipo di scrittura musicale. Noi di Santa Vittoria, per esempio, suoniamo con tre violini, una viola e un contrabbasso. A Parma ci sono gli strumenti a fiato, a Modena i mandolini, solo per fare alcuni esempi. I nostri brani non prevedono un violino solista, bensì tre violini che concertano tra di loro: uno suona la linea principale e acuta, un altro lo sostiene e il restante fa da contraccanto. Viola e contrabbasso accompagnano il tutto, eseguendo ogni tanto alcune linee tematiche».
Voi eseguite i brani restando fedeli agli originale o le vostre sono reinterpretazioni?
«A differenza del nostro lavoro con Riccardo Tesi, questa è un’operazione che definirei filologica. Noi non abbiamo spartiti, ma abbiamo ricostruito linee melodiche, giri di basso e cosi via ascoltando delle registrazioni. Spesso siamo partiti da semplici frammenti. Nel nostro spettacolo presentiamo anche alcuni brani scritti da Davide Bizzarri “alla maniera” di Santa Vittoria».
Il violino viene spesso considerato uno strumento per la musica classica e colta. In realtà è usato anche nell’esecuzione di generi popolari come il country, la musica gitana o quella klezmer. Come mai il violino è “vittima” di questo fraintendimento?
«Non saprei dirle, però, quello che è certo, è che il violino nasce come strumento popolare. Con il tempo poi acquisisce la sua diversa nobiltà in ambito classico. Sul ruolo giocato dal violino nella musica ebraica, mi viene in mente una battuta di Isaac Stern: “Provate a scappare voi portandovi dietro un pianoforte Steinway”. Diciamo che ci sono modi colti e modi popolari di suonare il violino. Pensi che a Santa Vittoria si imparava prima a scrivere la musica piuttosto che a fare la firma».
La tradizione in musica è un limite o è una chiave per il futuro?
«La tradizione non deve essere archeologia, cioè una fuga dal presente. Non deve essere nemmeno monumentalizzazione. Tradizione è tradire, pensare al futuro. La dimensione delle radici è importante per costruire un’identità, che, però, non deve essere ripiegata su se stessa. Con I Violini di Santa Vittoria stiamo riscoprendo chi siamo e la nostra terra, ma questo limes, questo confine che facciamo è anche un limen, un’apertura che permette il dialogo».
Emilio Mariotti