Un saluto agli ospiti nazionali e internazionali che accorrono a Siena a parlare del futuro dell’Europa? Ben volentieri.
Ma è superfluo ricordare le grandi realizzazioni monumentali e artistiche di quel tempo, che hanno dato un volto definitivo a Siena e diffuso a livello internazionale la sua arte. Meglio qualche dato sintetico di sostanza al di là dei saluti ufficiali che non mancheranno, e anche qualche dato meno noto non guasterà, agli ospiti e ai senesi stessi.
Nell’età di Dante, ai primi del Trecento, la città era al massimo dello sviluppo demografico: 40/50 mila persone vivevano entro le mura o nei sobborghi immediati (come Camollia e borgo Santa Maria tra Val di Montone e Malborghetto), contro gli 11 mila attuali.
La città era tutta un cantiere, visto che si stava costruendo la piazza del Campo, la Cattedrale, il Palazzo Pubblico, la Mercanzia, ecc.
Tutto questo rigoglio aveva come base materiale la specializzazione bancaria che i Senesi seppero conquistarsi nel Duecento e l’utilizzo delle miniere d’argento di Montieri e dei luoghi vicini.
Siena era allora una delle prime città europee per la popolazione, e tra le primissime come livello di civiltà, sia perché seppe trasformare la ricchezza privata in ricchezza collettiva, urbana; sia perché il suo Comune seppe controllare rigorosamente l’attività edilizia privata e costruire solo cose belle. Il culto della bellezza urbana era diffusissimo; il Campo doveva essere tenuto pulito perché destinato alla ‘ricreazione dei cittadini’.
Fuori Camollia si doveva fare un bel prato, perché vi sostavano i forestieri; il Sansedoni per il suo palazzo sul Campo volle – scrivendolo nel contratto stesso – che gli archetti delle finestre fossero i più belli, pretendendoli “ad colonnellos”.
Tutto questo non fu dovuto ad una oligarchia di mercanti come si continua a dire semplificando una situazione molto più complessa.
In primo luogo i nobili non furono affatto allontanati dal gioco politico-amministrativo come farebbe pensare l’esclusione dal Concistoro dei Nove (la giunta bimestrale che governava da Palazzo). Per motivi diplomatici e militari erano sempre utilizzati e sempre utilissima era la loro ricchezza e la loro capacità imprenditoriale. Fu un Senese in quegli anni ad essere chiamato a Lubecca, la città dell’Hansa allora in pieno sviluppo, per impiantare e dirigere la zecca.
In secondo luogo, i Nove non erano un gruppo omogeneo, di ricchi banchieri soltanto. I dati accertati non consentono affatto di parlare di un gruppo chiuso. Anzi, vista la continua rotazione nelle cariche, evidentemente essi poterono governare ininterrottamente per 70 anni (in un mondo che solo eccezionalmente aveva governi duraturi) solo perché cooptarono in continuazione esponenti di altri ceti sociali.
In terzo luogo, si deve ricordare che questa Siena prosperosissima era guelfa e inserita nell’alleanza fiorentina-papale-angioina. Il trionfo di Montaperti non era dimenticato: forse Duccio lavorò alla grande Maestà per commemorare il 50esimo dell’evento. Tuttavia quel periodo di lunga pace con Firenze fu fruttuoso, almeno sul breve-medio termine. Sui tempi lunghi invece si potrebbe dire che quell’alleanza fu rovinosa perché privilegiò il fiorino fiorentino e mise alle corde la moneta senese.
Intanto, però, in quella situazione Siena poté conquistare l’Amiata, sottomettere definitivamente Grosseto e Massa Marittima, costruire le poderose fortificazioni di Paganico e di Talamone, entrambe colonizzate ex-novo assegnando i vari lotti alle famiglie senesi che s’impegnavano ad abitarvi.
L’esperienza non fu dimenticata.
Quel periodo senza grandi politici (non ce ne è uno solo del tempo dei Nove, di cui si sia conservato un ricordo netto, e meno che mai un ritratto!), fu una grande creazione collettiva. Peraltro, la notevole partecipazione consentiva imponenti progetti (come la nuova enorme cattedrale), e permise di “ereditare” i docenti dell’Università di Bologna, favorendone il trasferimento a Siena.
Quei politici crearono una cultura di governo che non andò perduta. Le famiglie dei Nove dopo il loro crollo (1355) appartennero al ‘monte’ dei Nove: una specie di partito che partecipò quasi ininterrottamente al governo della Repubblica fino alla caduta nel 1555.
Anzi, proprio i Nove furono un problema gravissimo sui tempi lunghi per la Repubblica. Il mito del loro tempo aiutò a superare gravissime crisi (come quella di fine Trecento); ma proprio perché erano un mito, i loro esponenti si ritennero investiti di un ruolo speciale in città. Aspirarono a una posizione di riguardo come avrebbero voluto i nobili tradizionali. Perciò crearono quei turbamenti gravissimi della vita interna cittadina, da cui discese la fine della Repubblica.
Non fu tanto l’esercito fiorentino-spagnolo a provocare la fine della Repubblica; furono i dissensi interni, e l’incapacità dei Senesi di accordarsi sul governo del proprio Stato, a provocare la fine della Repubblica.
Cosimo de’ Medici non fece che raccogliere una mela matura.
Non attribuiamo al Signore fiorentino eccessivi meriti, e riflettiamo piuttosto sui demeriti dei senesi, anche quelli recenti. E’ troppo facile dare agli altri la responsabilità delle nostre disfatte…
Mario Ascheri
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