In una delle numerose visite fatte al quartiere Conolly negli ultimi mesi, la mia attenzione è stata attirata da un graffito presente in una delle celle della parte di sinistra, quella chiamata del Reparto Criminale. Lo si trova, nella seconda cella, sulla soglia di travertino della finestra e consiste nell’incisione di un nome: DARIO VENTURINI, scritto in buona calligrafia e che pare messo lì a futura memoria di una presenza, quasi una sorta di lapideo biglietto di presentazione.
Ho deciso di capire qualcosa di più di questo nome, è così iniziata una piccola ricerca tesa a capire se una cartella con quel nome esisteva davvero e, se sì, che storia raccontava. La cartella esiste e scorrendola mi sono trovato di fronte ad una storia drammatica e piena di angoli oscuri.
Più in generale è una vicenda che ci mette di fronte ad alcune delle difficoltà più grandi della Psichiatria ed alle inevitabili contraddizioni che dalla gestione di quelle difficoltà scaturiscono. Che l’intreccio sia complicato lo dimostra la presenza di molti carteggi tra istituzioni diverse che vanno messi in ordine per essere ben capiti. Penso che utilizzare il metodo cronologico sia forse l’unico modo per raccontare in maniera comprensibile questa storia.
La vicenda comincia in un paesino della provincia di Massa e Carrara, Montedivalli di Podenzana, che pur essendo ancora amministrativamente Toscana, rappresenta per legami, per caratteristiche del territorio e forse anche per il carattere dei suoi abitanti, una sorta di enclave ligure, trovandosi già in Val di Vara. Il borgo è in mezzo alle colline della Lunigiana e vive di agricoltura e pastorizia. Siamo nel 1907 quando a Felice Venturini e Giulia Balconi, regolarmente sposati, nasce un figlio maschio che chiamano Dario. La storia precedente di Dario non è raccontata, essendo l’anamnesi così stringata da essere quasi inesistente, pur dovendo raccontare solo sedici anni di vita. Non si parla di difficoltà perinatali o di altre malattie notevoli che possano motivare il fatto che Dario comincia ad accusare convulsioni e crisi epilettiche sempre più frequenti e nel corso di quei pochi anni struttura un brutto carattere, spesso impulsivo e litigioso.
La storia entra nel vivo quando Dario appunto ha sedici anni. Nel luglio del ‘24 infatti un medico, il dr. Giuseppe Ratti, si incarica di redigere un certificato per ricoverare il ragazzo in manicomio. In quello scritto afferma che Dario soffre di ripetuti accessi convulsivi e che negli ultimi giorni ha tenuto i seguenti atteggiamenti: 1) si è gettato da una finestra procurandosi lievi ferite, 2) ha cercato di battere il fratello, 3) si è scagliato con una mazza contro il padre. Questo gli permette di sostenere che il ragazzo è pericoloso per sé e per gli altri e che quindi deve essere ricoverato nel manicomio più vicino, quello di Lucca. Come spesso capita con certificati che vogliono ottenere un ricovero coatto, c’è l’impressione che sia redatto con un pizzico di esagerazione, soprattutto nella successione degli eventi raccontati.
Comincia così a Fregionaia, Lucca, la carriera psichiatrica di Dario che il 31 luglio 1924 viene lì ricoverato. Dopo nemmeno un mese però, nonostante che nella relazione clinica fatta da quei medici si sostenga che va meglio, ha meno attacchi ed è calmo, se ne dispone da parte della Deputazione Provinciale di Massa e Carrara (insomma l’Amministrazione Provinciale, allora deputata all’assistenza psichiatrica), il trasferimento a Siena.
È forte la sensazione di un non detto, perché trasferire il ragazzo a Siena se tutto va bene? Non solo ma quando se ne provvede il trasferimento c’è uno scambio di lettere tra i due istituti. In sostanza il ragazzo deve essere trasferito in treno con almeno due infermieri che lo controllino. Lucca chiede a Siena se questa operazione può essere fatta dal personale del San Niccolò, adducendo come motivo di tale richiesta che il maggior numero di personale del San Niccolò potrebbe garantire maggiore sicurezza e rapidità. Il direttore D’Ormea si oppone e dice che la facciano pure loro, se ci vuole qualche giorno in più pazienza. L’impressione è che già si pensi al Venturini come ad un pericoloso delinquente di cui nessuno si vuole volentieri occupare. Siamo in piena estate (la richiesta di trasferimento porta la data del 9 agosto) e così passa tutto il periodo di ferragosto e solo il 28 di quel mese del 1924 il paziente viene trasferito a Siena e comincia la degenza di Dario presso il San Niccolò.
È una degenza di medio lungo periodo (durerà infatti quasi quattro anni), durante la quale i medici hanno modo di conoscere il paziente e così di descriverlo come attaccabrighe, litigioso, falso, sempre alla richiesta di maggior cibo e di soldi, protestatario, con poca voglia di impegnarsi nel lavoro. Gli viene prima proposto il lavoro dello sparto (l’intreccio dei vimini) ma litiga con gli altri, poi altre attività che per un po’ svolge con regolarità salvo poi trovare qualche inghippo per smettere e lamentarsi. Viene monitorata la frequenza degli attacchi epilettici che è molto varia nonostante la cura intrapresa con il Luminale, a volte sono quasi continui tanto da parlare di stato di male epilettico, a volte invece si diradano nel tempo e lasciano tregua a Dario per giorni e settimane intere. La famiglia mantiene i contatti, gli manda ogni tanto dei soldi.
Nel settembre del 1927 arriva al direttore D’Ormea una lettera del farmacista dr. Filippo Dori con farmacia a Madrignano (La Spezia) che dista pochi chilometri da Montedivalli. Forse per dare maggior peso alle sue richieste oltre che come farmacista si qualifica anche come delegato dell’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra. Cosa chiede il farmacista? Afferma di scrivere su richiesta del padre Felice per perorare la causa di una dimissione, ma il tono risulta ambiguo, non si capisce se chieda la dimissione di Dario, o se invece, quasi senza rendersene conto, voglia sottilmente mettere in guardia il manicomio da un programma di quel tipo. Chiede di sapere come sta il ragazzo, se è guarito del suo male (come se non sapesse, specialmente in quegli anni, che quel male si può controllare ma non guarire) e se è pensabile rimandarlo a casa. D’Ormea forse risponde o forse no, sta di fatto che qualche mese dopo, siamo a fine marzo del 1928, il ragazzo è dimesso con la formula dell’esperimento prevista dall’art. 66 della legge allora vigente ed affidato in custodia al padre.
Siamo qui allo snodo principale della storia. Passano poche settimane e la sera del 14 giugno, capita una rissa, nel corso della quale Dario uccide con tre coltellate suo padre Felice.
In una breve relazione il giudice istruttore riporta la versione di Dario che dice di essersi difeso dal padre che gli si era scagliato addosso con un pugnale e che disarmatolo, lo aveva a sua volta colpito. Si apre così tutta la trafila dei procedimenti giudiziari, viene richiesta una perizia e una relazione all’ospedale che solo qualche settimana prima lo aveva dimesso (sia pure in prova) migliorato. Nel modulo della dimissione che il padre firma per riportare Dario a casa si può notare che alla parola custodia viene aggiunto a penna l’aggettivo “rigorosa”. Forse dopo l’avvenimento? Forse il fragile tentativo di costruire una difesa del proprio operato? Quello che si può notare è che le varie istituzioni in gioco sembrano “rispettarsi” molto e gli scambi di accuse, (oggi le accuse di malasanità sarebbero già scoppiate) se ci furono, rimasero sotto traccia.
Dario viene dichiarato incapace di intendere e pertanto non imputabile del delitto commesso e spedito a Montelupo Fiorentino in attesa dell’espletamento di tutti gradi di giudizio. Avvenuti questi che si concludono in corte di Appello di Genova nel maggio del ’29, Montelupo lo rispedisce a Siena dove arriva il 26 di maggio del ‘29 per il suo secondo ricovero. È probabilmente in questa seconda degenza che il Venturini soggiorna presso la sezione Criminale del Conolly e scrive quella specie di biglietto da visita. Altro mistero, il ragazzo era analfabeta e non può certo essere stato lui a scrivere, in una calligrafia con gli svolazzi, il suo nome. Chi lo avrà aiutato? Ogni cella era singola e pertanto? Credo che non saremo mai in grado di chiarire tali particolari.
Comincia così la degenza di Dario che ormai si porta, a buona ragione, l’etichetta del malato difficile e questo lo si nota dalle scritte in cartella che ormai hanno un tono definitivo in cui l’unico scopo è il controllo, ma forse anche la volontà di espulsione. Ecco come il medico descrive il paziente: “Epilettico dei peggiori per tendenze e per carattere. Sobillatore per eccellenza, complottatore e falso. Ha tendenze pericolose e violente nei periodi di male che lo assalgono ora più di rado, ma sempre frequentemente. Ha rare convulsioni. Ha affetti apparenti ma sempre subordinati ad un funzionamento egoista e di interesse personale. Condizioni psichiche buone.” E così nel dicembre del 1931 il Venturini viene trasferito di nuovo a Montelupo Fiorentino e di lui non sappiamo più nulla.
I problemi e le riflessioni che questa storia apre sono davvero molti, alcuni di ordine prettamente medico, per esempio che tipo di epilessia affliggeva il nostro, altri di ordine più generale e non è questo lo spazio per affrontarli. Mi limito solo ad elencare i più stringenti: è capace la scienza psichiatrica di prevedere il comportamento dei suoi assistiti? fatti simili si possono imputare a negligenza o rimane un margine di assoluta imprevedibilità che può solo essere accettato? la violenza di alcuni soggetti è funzione di come vengono trattati o invece è insita in loro indipendentemente da tutto? esistono istituzioni che hanno la capacità di farsi carico “volentieri” di certe situazioni oppure, quando le cose si mettono male, tutti cercano comprensibilmente di “pararsi”.
Non credo che ci siano risposte certe anche se la mia esperienza di psichiatra è, ahimè, ormai lunga.
Ma il paradosso più stridente della storia sta nel fatto che l’unico sconosciuto è proprio Dario, dei cui pensieri, interessi, affetti e passioni non sappiamo nulla. Quello che mi pare di poter dire è che Dario fin dall’inizio della sua vicenda sia stato interpretato come un delinquente, probabilmente con qualche ragione, anche se non aveva certo scelto la malattia che probabilmente sosteneva certi suoi comportamenti. Credo che se tutti vedono una persona come un criminale, quella persona sarà sotterraneamente spinto a diventarlo.
Dario insomma, figlio sfortunato di una terra aspra e dura, non ha mai trovato qualcuno che lo abbia avvicinato con volontà di comprensione e rappresenta pertanto uno di quei “casi persi” che si incamminano su un brutto cammino senza che nessuno provi a fargli cambiare strada.
Andrea Friscelli
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