Cultura

Le storie del manicomio: Don Serafino, una vita stanca

SALVARE LA MEMORIA STORICA DELL’UNICO PANOPTICON BENTHAMIANO ANCORA ESISTENTE IN ITALIA (L’EDIFICIO DEL REPARTO CONOLLY NELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO SAN NICCOLÒ, A SIENA): SIENANEWS SOSTIENE LA CAUSA E FA CONOSCERE AI PROPRI LETTORI LA STORIA E LE OMBRE DI UN PEZZO DI STORIA DELLA CITTÀ.

Le vicende che racconto (quando non si basano su ricordi personali) si fondano sull’esame di una cartella clinica, all’interno della quale esistono note scritte da un medico a seguito di uno o ripetuti colloqui con un malato. Quindi quando io leggo qualcosa che il medico ha scritto è come se si verificasse una triangolazione: ad un vertice ci sono io che “giudico” in qualche modo il loro rapporto (breve o lungo che sia stato).

E la loro relazione è stata l’incontro di due mondi, da un lato quello del medico con la sua personalità, la sua storia, i suoi studi, i suoi interessi e dall’altro un altro mondo costituito dalle stesse cose per il malato. Senza complicare troppo il ragionamento, credo si possa intuire a quante variabili quell’incontro è stato sottoposto e quanto sia aleatorio dire qual è il grado di “verità” che ne è scaturito.

A parte i dati oggettivi, tutto ciò che riguarda le impressioni, i rilievi diagnostici, i giudizi sulla persona, è invece del tutto soggettivo. Quando io scrivo, poi, è come se la situazione si complicasse ulteriormente, visto che entrano in gioco tutte le mie variabili. Ciò motiva la difficoltà nel giudicare, ma nello stesso tempo l’impossibilità di non farlo. Posso, per esempio, avere l’impressione di scorgere tra le righe ciò che il medico non ha visto o non ha intuito, prendo invece nota di ciò da cui è stato particolarmente colpito. Può addirittura capitare che non mi trovi del tutto d’accordo con la diagnosi fatta o che mi immagini cose che pur non essendo scritte, si possono pensare. La Psichiatria, forse la più soggettivante delle discipline mediche, si basa molto sull’utilizzo delle sensazioni come strumento di lavoro. Questo ci dà, da un lato, nessuna matematica certezza di verità e dall’altra la possibilità che lo stesso caso possa essere visto, da due psichiatri, in modo diverso.

Prima di raccontare la storia che ho in mente faccio un’altra divagazione che, come vedrete, con quest’ultima è strettamente connessa.
“Diario di un curato di campagna” è un libro di un autore francese, George Bernanos, scritto nel 1936, da cui qualche anno dopo (1950) Robert Bresson trasse l’omonimo film. Non ho letto il libro ma ho visto il film. Ambientato in un paesino di poche anime al confine con il Belgio e vicino alla costa, raffigura la provincia francese in un cupo bianco e nero ed è un caposaldo nella filmografia del regista francese. Viene raccontato di un giovane prete che ben presto si trova in contrasto con i parrocchiani forse perché da un lato troppo severo con loro e d’altro invece troppo accondiscendente nel sopportare il peso dei segreti di una famiglia nobile. Questa situazione gli crea un disagio interiore che affida ad un diario, pieno di dubbi e ripensamenti. Il film poi si conclude tragicamente perché il giovane curato si ammala di cancro e va a morire in casa di un prete, che si è spretato per stare con una donna. L’amico è l’unico che gli offre disinteressata assistenza in quel momento estremo dell’esistenza, quasi che solo fuori dalla chiesa avesse potuto trovare un po’ di accoglienza. L’atmosfera del film è plumbea e introspettiva, tanto che è rinomato per essere uno delle prime pellicole in cui un regista è riuscito a trasportare sullo schermo in modo magistrale le inquietudini interiori.

Consultando l’archivio storico del San Niccolò alla ricerca di storie da raccontare, mi sono imbattuto in questa che mi ha fatto ad un certo punto ripensare a quel film, sepolto in chissà quale recesso della memoria. Il racconto è senz’altro meno tragico e si conclude con un successo terapeutico che evita quel fenomeno dei continui rientri in manicomio che capitava a tanti malati.

È la storia di don Serafino, prete di campagna. Nato a Volterra nel 1840, Serafino viene ordinato sacerdote e spedito in una parrocchia fuori mano. A dispetto di questo nome gioioso e “ardente” (questo il significato) il nostro è di costituzione gracile, magro, pallido, lievemente curvo. Tutto contribuisce a dargli un aspetto malaticcio. Soffre da sempre di episodi di emicrania che però riesce a tollerare per diversi anni. La complessione psicofisica farebbe pensare ad un ossessivo, sempre pieno di dubbi e tormenti, sempre preoccupato di non essere all’altezza dei suoi compiti. Così si racconta al medico che lo interroga al primo incontro al San Niccolò. Parla senza difficoltà, raccontando di sé e delle sue pene con un atteggiamento di fiducia. Ma una delle prime cose che dice è che “sente che la mente è svanita”. Infatti verso i quarant’anni i mal di testa si sono fatti più forti come i dubbi che si porta dentro. Si chiede addirittura se davvero è stato ordinato sacerdote, almeno se lo hanno fatto in modo regolare. La domanda gli nasce in testa perché sempre più spesso si sente incapace di tutte le incombenze di un parroco. Sembra quasi di vederlo nella sua veste nera, lisa, sempre ripiegato su sé stesso, curvo, preoccupato, magro allampanato, che sfugge il contatto con i suoi parrocchiani che hanno sempre qualche problema da porgli.

Mi figuro il suo atteggiamento a metà tra un burbero scostante e uno stanco che cerca di evitare contatti e pensieri. La cattiva coscienza di essere un gran peccatore per via di questi dubbi gli esacerba l’emicrania. Racconta che, una volta preso atto delle sue difficoltà, decide di rivolgersi, prima di tutto, al suo Dio chiedendo aiuto con la preghiera. Ma – così scrive il medico che lo riceve all’atto del ricovero – “la divinità rimane muta ed avara di soccorso per lui”. Chissà a chi dobbiamo questa suggestiva descrizione? all’estro letterario del medico o alle vere parole di don Serafino?

Anche lo sbrigativo colloquio che gli concede il Vescovo dal quale era andato a chiedere conforto sorte poco effetto. Gli scrupoli aumentano e la sua mente è sempre più preda di paure ipocondriache, cioè di essere malato gravemente. E come cerca di spiegarsi il suo stato? Fa vaghi riferimenti, forse non del tutto espressi nel colloquio per il timore che prova solo a pensarli, alla presenza di diavoli che sono installati dentro di lui.

Un parroco deve sempre essere in qualche misura un leader spirituale attraverso l’esempio della sua fede. Ma sentendo la sua situazione è difficile pensare a quest’uomo come ad un uomo di fede, forse – penso io – sente le preghiere ridotte a rituali vuoti, con in testa la sensazione che se avesse potuto tornare indietro sulle sue scelte sarebbe stato meglio. In un momento del primo colloquio afferma anche di aver pensato al suicidio per togliersi da torno quei pensieri, ma ha pensato che così la sua situazione di peccatore si sarebbe aggravata ancora di più e questo lo ha trattenuto.

Decide alla fine di rivolgersi alla scienza medica. Prima vari medici che gli consigliano medicine e diete, senza alcun successo, poi anche gli “empirici” (stregoni?) che hanno lo stesso risultato.
Nel dicembre 1888 vuole ormai abbandonare la sua parrocchia, fino a che nel febbraio dell’anno successivo decide di rivolgersi al nuovo ospedale che si trova a Siena, il San Niccolò.

Il medico non indaga la posizione della famiglia di origine in tutta la vicenda, forse non si usa farlo per un sacerdote che, quando arriva alla sua osservazione, ha già 49 anni. A me però viene da pensare a Serafino come ad un bambino nato vecchio, che la madre, vedendolo così mingherlino e indifeso, ha indirizzato alla carriera ecclesiastica. In questo caso non ci troviamo certo di fronte alla costrizione di un ricovero per un comportamento abnorme che la società richiede di controllare, ma ad una richiesta fiduciosa verso una nuova scienza, la Psichiatria, che in quegli anni muoveva i primi passi.

Ed il San Niccolò lo accoglie con un po’ di cloralio, uno dei primi farmaci blandamente sedativi utilizzabili a quel tempo, dieta, riposo. Si svolgono periodici colloqui che il medico annota nel diario clinico. Il medico riferisce che non sembra gradire la compagnia degli altri malati, si mostra poco “sociale” ma regolarissimo nel contegno, preoccupato solo per la propria salute. Comincia poi un lento miglioramento. Finalmente dice di credere nella possibilità di un miglioramento, ma interrogandolo un poco – dice il medico – facilmente certe idee tornano fuori, i dubbi sono sempre in agguato. Pare di capire che le sue dichiarazioni sono più improntate alla volontà di far piacere al medico che non a esprimere davvero quello che sente dentro. Nei momenti più pessimisti dice di non credere che della sua famiglia resti ancora qualcuno, fino a che gli fanno leggere una lettera mandatagli da loro per convincerlo del loro buono stato di salute.

Fisicamente sembra migliorare e nel marzo del 1890, nell’ultima nota prima della dimissione, il medico così scrive: “…. è andato gradatamente migliorando, si è fatto più tranquillo e franco nel parlare, dice di aver abbandonato tutti i dubbi avuti fin qui e riconosce la stranezza delle sue idee. Oggi, richiesto con formale domanda dalla famiglia, parte affidato alla custodia domestica.”
Pare una ritrattazione vera e propria della malattia e delle idee precedenti, quasi avesse capito che per uscire così bisognava dire. Oppure magari davvero dopo più di un anno di riposo e cure si sente meglio tanto da andarsene tranquillamente a casa.

Nulla sappiamo sul resto della sua vita, al San Niccolò non tornerà più. Ci possiamo chiedere: avrà ripreso il suo ministero? oppure si sarà rinchiuso in una vita meno impegnativa ma meno preoccupante?

Personalmente, per quello che può contare, propendo più per la seconda ipotesi, forse la sua “malattia” non è stata tanto un momento di depressione, ma il lento rendersi conto di aver sbagliato tutto il progetto di vita, il prendere atto di poter vivere solo in un modo più riparato e discreto.

Ricordiamoci che una personalità ossessiva è di solito corredata di una mente che può “lavorare” poco, sempre impegnata nei soliti pensieri, sempre quelli, che magari difendono da angosce profonde che mai, proprio mai devono venire a galla.

Andrea Friscelli

Emilio Mariotti

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Emilio Mariotti

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