SALVARE LA MEMORIA STORICA DELL’UNICO PANOPTICON BENTHAMIANO ANCORA ESISTENTE IN ITALIA (L’EDIFICIO DEL REPARTO CONOLLY NELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO SAN NICCOLÒ, A SIENA): SIENANEWS SOSTIENE LA CAUSA E FA CONOSCERE AI PROPRI LETTORI LA STORIA E LE OMBRE DI UN PEZZO DI STORIA DELLA CITTÀ
Mai tenere, dentro casa, il fucile a portata di mano con un figlio come Angiolo – questo deve aver pensato il padre Pasquale (il nome è di fantasia), dopo quella paura che si era preso qualche giorno prima. Era successo che Angiolo, in uno dei suoi accessi d’ira, durante una delle loro discussioni si era trovato vicino il fucile e senza pensarci neppure un po’ gli aveva sparato quasi a bruciapelo. Il figlio sosteneva di aver all’ultimo deviato volontariamente il tiro e così non era successo nulla, ma c’era da credergli? – si chiedeva ancora il padre. Quel figlio, così impulsivo, senza regole, era la sua dannazione. A scuola non era voluto andare tanto che era rimasto analfabeta, al lavoro dove l’aveva mandato come manovale aveva resistito qualche mese. Poi aveva mollato, e tornato a casa per di più voleva soldi da lui per andare a bere in città e far baldoria con gli amici. Angiolo litigava sempre anche con i fratelli, erano risse anche con i parenti che ogni tanto venivano a trovarli. Allora l’aveva portato con sé a lavorare ma i risultati erano stati quei continui litigi fino al giorno della fucilata. Per questo si era deciso a rivolgersi all’autorità giudiziaria, che lo portassero in caserma a fargli una bella ramanzina. Quando era venuto la guardia di P.S. a portargli l’intimazione di presentarsi in caserma, Angiolo aveva reagito al suo modo, prima a male parole, poi aveva preso per il collo quel disgraziato che faceva solo il suo lavoro. Così si era beccato una querela e poi dieci mesi di carcere, tutti fatti e scontati. Adesso stava per tornare a casa e tutti in famiglia erano preoccupati.
La storia di cui vi ho raccontato un primo scorcio è antica eppure modernissima. Se non fosse, com’è, del 1889, potrebbe benissimo essersi svolta ai giorni nostri: un figlio ribelle che non rispetta i genitori e che vuole imporre la sua condotta alla famiglia. Forse dovremmo cambiare qualche ingrediente (allora il vino e la baldoria, oggi qualche sostanza e lo sballo) ma il sapore resterebbe quello.
È una storia, inoltre, che ci confronta con alcuni dei problemi più spinosi della Psichiatria: è davvero possibile individuare con esattezza quel sottile confine che esiste tra delinquenza deliberata da una parte e dall’altra l’incapacità patologica di controllarsi e di non nuocere agli altri?
E pur una volta definito che ci troviamo di fronte ad una persona con problemi psichici, ad uno di quelli “incorreggibili”, come si riesce a gestirlo?
Risposte quasi mai facili da dare e che ci tormentano oggi come allora.
La storia psichiatrica di Angiolo comincia dopo le vicende precedenti, quando una mattina viene colto da un attacco convulsivo che lo lascia steso a terra per qualche minuto, stordito e abbandonato sulla pubblica via. È soccorso e portato al San Niccolò il 4 maggio del 1889, ed ha 21 anni.
Comincia così una lunghissima permanenza al manicomio che terminerà solo vent’anni dopo con la sua morte e che sarà caratterizzata da diversi episodi drammatici. Il carattere di Angiolo, quasi lo specchio delle sue convulsioni, lo portava a reazioni impulsive e drammatiche seguite poi da momenti di quiete e docilità.
Già al momento del ricovero, una volta ripresosi, lo rifiuta, non vuole neppure sentirsi dire che è stato soccorso per strada, nega insomma di aver avuto quella crisi e vuole subito tornarsene a casa, tanto che i medici decidono di “fissarlo” al letto perché si calmi un po’. Durante il primo colloquio il medico, informato della sua storia e degli eventi precedenti, cerca di contestargli i fatti successi, quelli che la famiglia racconta. Solo facendogli notare con forza e decisione che il suo atteggiamento aggressivo non avrebbe portato a nulla, riesce a ottenere qualche risposta. Lascio allo psichiatra la parola: “ci ha detto che non è vero che è in collera col padre e coi fratelli, ch’egli vuol loro bene e che vorrebbe poterglielo dimostrare: sa che i fatti da lui commessi provano il contrario, ma afferma che anch’egli è un disgraziato che è sempre stato portato a fare ciò che non voleva.” È la confessione di uno la cui volontà è sbaragliata dall’istinto, dall’impulsività che a volte si impadronisce di lui, del tutto incapace di governare quel cavallo imbizzarrito su cui è in groppa. Il medico gli chiede dell’episodio del fucile e così risponde: “…spianai il fucile a mio padre perché il fucile era lì vicino, se avessi dovuto cercarlo non lo avrei fatto… (di nuovo un gesto impulsivo, “innocente”, verrebbe da dire, certo non una maligna premeditazione) – e poi continua – …in famiglia non hanno modo di pigliarmi, sennò sarei stato buono”.
Ed ecco la descrizione che lo psichiatra fa di Angiolo dopo quel primo colloquio: indole morale poco corretta – grado d’intelligenza sufficiente – poco costumato (educato) – di carattere irascibile – poca volontà al lavoro – dissipatore tanto da costringere la famiglia in ristrettezze economiche. A parte alcune parole desuete è la descrizione che potremmo fare oggi di un sociopatico caratteriale in bilico tra il carcere o la psichiatria.
La storia di Angiolo dentro il manicomio è lunga e complessa, con continue oscillazioni tra il comportamento arrogante e impulsivo che abbiamo già conosciuto e un altro dove assicura di aver capito la lezione e di essere pronto a comportarsi bene. Si susseguono le descrizioni del suo carattere, per esempio: “…è eternamente scontento, ora chiede una cosa ora un’altra e s’inquieta perché non lo assecondiamo.” Spesso rifiuta le medicine (bromuro di potassio e cloralio) tanto da dover essere spesso legato per questo motivo, ma allo stesso tempo si impaurisce molto quando si ammala e chiede in continuazione se per quello morirà. Poi, come se fosse afflitto da continue amnesie morali, dopo pochi giorni non si ricorda più dei buoni propositi, e tutto ricomincia da capo in una sorta di “loop” comportamentale che non varia mai. Intanto le crisi epilettiche si susseguono con discreta continuità. Nel corso dei venti anni trascorsi si succedono episodi drammatici, mi limiterò a raccontarne due.
Nell’aprile 1896 effettua un tentativo di fuga, tornando dal lavoro svolto al Villaggio, dirigendosi verso il Centrale, si ferma prima del “ponte” (il passaggio sopraelevato tuttora esistente), sfugge al controllo e si dirige a gran corsa verso il cancello di entrata dell’istituto. Lì qualcuno lo riconosce, il cancello viene chiuso e lo riprendono nonostante la sua fiera resistenza. Il risultato? Dopo essere stato ammanettato, viene mandato al quartiere Conolly per qualche giorno di isolamento. Angiolo era già stato al Conolly e non gradiva per nulla quel soggiorno. Quando si trovava lì il suo comportamento diventava docile e ubbidiente, per ottenere il permesso di tornare nei normali reparti. In quella permanenza, dovuta al tentativo di evasione, viene tenuto per quasi un mese con le manette. E proprio lì dentro, forse per l’esasperazione del trattamento che riceve, avviene, qualche mese dopo, il secondo, drammatico episodio. Lascio la descrizione dell’accaduto al medico che si trova a assistervi: “…rompe un vetro della finestra con una testata ed impugnatone un frammento, con forza si dava un colpo alla regione carotidea sinistra procurandosi una larga e profonda ferita lacero contusa, nonché la recisione della giugulare, nonché di alcune piccole arteriole della regione. Portato all’infermeria veniva convenientemente medicato con zaffatura profonda giacché la prima medicatura era stata insufficiente ad arrestare l’emorragia secondaria che si era formata…”. Dal Conolly verrà rimandato al normale reparto solo a dicembre di quello stesso anno.
La sua permanenza al San Niccolò è fatta di frequenti spostamenti tra il normale reparto, l’infermeria ed il Conolly, rimbalzando tra quei luoghi come una pallina. Soggiorna al Conolly almeno tre volte, all’infermeria molto di più. Le note in cartella registrano ormai solo questi spostamenti, nessuno si prende più la briga di parlare con questo eterno ribelle. Curiosamente molte volte le note portano la data del 31 dicembre, come se si fossero ricordati di lui solo in zona Cesarini per non far passare un intero anno di silenzio.
Al 31 dicembre del 1907 (sono passati dall’ingresso 18 anni e qualche mese) si segnala, forse per la prima volta, un cambiamento in senso positivo del comportamento, è in infermeria dove si presta volentieri ad aiutare gli infermieri nel disbrigare il loro servizio. Ma nel gennaio 1909 lo troviamo ancora in Infermeria, finché con l’ultima nota del 14 marzo dello stesso anno se ne registra la morte per infezione tubercolare cronica per la verità mai segnalata prima.
Mi pare difficile sottrarsi all’impressione che questa storia racconti più di un carcere che non di un ospedale, gli elementi ci sono tutti: il tentativo di fuga, le manette, il gesto di auto nocumento effettuato aggressivamente, il tentativo di spezzare o almeno ammorbidire la volontà di Angiolo con livelli differenziati di isolamento (l’infermeria, il reparto normale, il quartiere Conolly) che ottiene qualche risultato solo quando ormai gli restano pochi mesi di vita. Questa impressione getta una luce di amaro realismo sull’ospedale che in certi casi non poteva che derubricare la sua attività da un tentativo di cura alla necessità di una custodia, rispettando almeno il mandato sociale di rendere inoffensivi quelli come Angiolo.
Forse alcune delle cose che ho scritto all’inizio potrebbero lasciar pensare che in fondo nulla è cambiato per queste persone da cent’anni a questa parte. Non è così, un Angiolo attuale avrebbe potuto giovarsi intanto di farmaci antiepilettici potenti e mirati e certo non avrebbe soggiornato vent’anni nell’ospedale – carcere. Ma pur tuttavia alcuni aspetti irriducibili del suo carattere e della sua storia ci presenterebbero anche oggi grandi difficoltà di trattamento. È vero che anche dal punto di vista della limitazione del comportamento aggressivo oggi esistono farmaci potenti, ma allo stesso modo è vero che quei farmaci, puramente sintomatici, in genere frenano alcuni comportamenti, ma non cambiano permanentemente quelle tendenze. D’altra parte stabilire un contatto vero e profondo con personalità simili è difficile anche se non impossibile.
Angiolo pare essere stato in qualche modo cosciente di ciò quando dice durante il primo incontro con lo psichiatra: “Io non potevo continuare per più giorni a portarmi bene, quando ero stato qualche giorno a lavorare nel podere mi sentivo una gran voglia di correre e andare in città per darmi alla baldoria e all’allegria, non riuscivo a vincermi”.
Vorrei finire con la storia, credo conosciuta, della rana e dello scorpione che mi è girata in mente spesso riflettendo su Angiolo e la sua storia. La versione più conosciuta racconta di una rana che si lascia convincere a traghettare un pericolosissimo scorpione portandolo in groppa dall’altra parte del fiume. È lo scorpione stesso che la convince facendogli notare che se la pungesse affogherebbe anche lui. Così quando a metà del guado lo scorpione la punge davvero, la rana lo guarda meravigliata e, annaspando nell’acqua, chiede spiegazione. E lo scorpione, in fondo sconfitto anche lui, risponde: “È la mia natura”, lasciandoci tutti sorpresi e delusi.
Ma andando a zonzo per la rete proprio stamani ho trovato una diversa versione della favola.
Un maestro zen vide uno scorpione in procinto di annegare e decise di tirarlo fuori dall’acqua. Quando lo fece, lo scorpione lo punse. Per effetto del dolore, lasciò l’animale che di nuovo cadde nell’acqua. Il maestro tentò di tirarlo fuori nuovamente ma l’animale lo punse ancora. Un giovane discepolo che era lì gli si avvicinò e gli disse: ” mi scusi maestro, ma perché continuate? Non capite che ogni volta
che provate a tirarlo fuori dall’acqua vi punge”?
Il maestro allora rispose: ” la natura dello scorpione è di pungere e questo non cambierà la mia che è
di aiutare”? Allora, il maestro, dopo aver riflettuto, con l’aiuto di una foglia, tirò fuori lo scorpione dell’acqua e gli salvò la vita, poi rivolgendosi al suo giovane discepolo, continuò:” non cambiare la tua natura se qualcuno ti fa del male, prendi solo delle precauzioni. Perché, gli uomini sono quasi sempre ingrati del beneficio che gli stai facendo. Ma questo non è un motivo per smettere di fare del bene”.
Meglio questo finale, non è vero?
Andrea Friscelli