SALVARE LA MEMORIA STORICA DELL’UNICO PANOPTICON BENTHAMIANO ANCORA ESISTENTE IN ITALIA (L’EDIFICIO DEL REPARTO CONOLLY NELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO SAN NICCOLÒ, A SIENA): SIENANEWS SOSTIENE LA CAUSA E FA CONOSCERE AI PROPRI LETTORI LA STORIA E LE OMBRE DI UN PEZZO DI STORIA DELLA CITTÀ
Raccontando storie come quelle di Adamo, di Dorina, di Giulio è stato semplice sollecitare nei lettori sentimenti di compassione e di comprensione per quei protagonisti. Chi per un verso, chi per l’altro, infatti, portavano inscritto nel loro DNA lo statuto della vittima sfortunata che la vita maltratta. In tali casi solleticare la corda dell’empatia non è difficile, tutti, o molti almeno, da lontano, tendono a “tenere” per i più deboli.
Oggi invece vorrei provare a cimentare i miei lettori con una storia diversa che stimola emozioni di tutt’altro tipo: antipatia, timore, in qualche caso forse addirittura aggressività verso la protagonista. Sia chiaro che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una persona appartenente alla schiera degli “ultimi”, degli sconfitti. Quelli che sono passati dal manicomio, che vi hanno soggiornato a lungo e poi magari (come in questo caso) vi sono morti, hanno quasi sempre assunto su di sé questo stigma. Fanno cioè parte, per definizione, di quella “merce difettosa” che finiva per trovare in quell’ospedale un magazzino semplice e comodo. Ma certo la rappresentazione fenomenologica che la signora Lina (il nome è di fantasia) dava di sé nel corso della vita non può essere paragonata con quelle precedenti. Una vita che potrei dire è stata all’insegna del “mi spezzo, ma non mi piego”.
Siamo a Siena nei primi anni Sessanta, in pieno centro storico. È bella stagione, primavera inoltrata, le finestre delle case sono aperte o socchiuse, si avverte il brusio della strada, il rumore che proviene delle botteghe degli artigiani, il calzolaio, l’imbianchino, il vociare dei bambini che giocano. Questo quadretto di serena vita senese di quel tempo viene improvvisamente ad essere turbato. Si alza, infatti, un alterco con voci concitate, urla rabbiose che naturalmente attirano l’attenzione di tutti. Molti si affacciano alla finestra, incuriositi da quello che succede, i grandi, quando capiscono che la temperatura emotiva della situazione è troppo alta, mandano via i ragazzini. Uno di loro però rimane a guardare atterrito ma anche attirato, quasi affascinato da quella scena al centro della quale sta, come su un palcoscenico, una signora alta, distinta, ben vestita con occhiali da sole e borsetta. Cammina impettita e un po’ rigida e sta gridando con l’imbianchino che ha la bottega sotto casa sua. Lo accusa di usare vernici che hanno odori tremendi e nocivi e gli impone con fare risoluto di smettere, di non usare più quei prodotti. L’artigiano che conosce il carattere della signora Lina per averlo già “assaggiato” in precedenza, tergiversa, cerca di eludere le richieste e le pretese della signora, poi forse perde la pazienza e prega, con parole poco urbane, la signora di non intralciare il suo lavoro. Quella si infuria ancor di più, alza molto il tono della voce, adesso sta proprio urlando, è rossa in volto e, con una mossa subitanea e imprevista, prima si avvicina all’imbianchino e lo schiaffeggia, poi sbatte la porta della bottega e trovando la chiave nella toppa esterna, chiude quel poveretto dentro e se ne va per i fatti suoi senza alcuna esitazione, con la chiave in tasca e con la bocca stretta in una smorfia orgogliosa di chi ha vinto una battaglia. Il verniciaio si dispera chiuso lì dentro, urlando chiede aiuto ai vicini e, per inciso, sarà poi costretto a rompere un vetro per “evadere” da quella prigione in cui la signora Lina l’aveva rinchiuso.
Se questo fosse un film a questo punto sarebbe necessario un lungo flash back con lo scopo di spiegare chi è la protagonista della scena madre appena vista e come è diventata a quel modo.
Lina è una signora di buona famiglia veneziana, nata nei primi anni del Novecento, con diverse sorelle e fratelli, ha fatto buoni studi e, pur essendo piacente, è rimasta nubile, fin oltre i trenta. Poi finalmente ha trovato marito, lui lavora presso una grande assicurazione, un buon impiego che lo obbliga a frequenti spostamenti di sede. Da qualche anno i due si sono trasferiti a Siena. Dalla loro unione non sono nati figli. Lei ha un carattere puntiglioso, litigioso, non è facile starle accanto e lui forse si consola con altre donne. Fino a che, siamo verso la metà degli anni Cinquanta, lui con un gesto estremo e imprevedibile, si toglie la vita avvelenandosi con il gas. È la signora Lina che, rientrando in casa, lo trova accasciato in cucina. In quell’occasione i vicini di casa, richiamati dalle sue urla, partecipano a quella tragedia. Viene chiamato il medico che sta lì accanto. Ma quando questo arriva non può far altro che constatare la morte di quel poveretto e la signora Lina ha una reazione delle sue. Non lo vuol sentir dire, il suo dolore diventa rabbia, vuole che si faccia qualcosa per il marito, che sia soccorso, che qualcuno lo riporti in vita. Si scaglia quasi contro il medico che cerca di farla ragionare, minaccia denunce e esposti. I maligni in seguito andranno dicendo che quell’uomo ha resistito al carattere della moglie per vent’anni, poi ha gettato la spugna.
Da quel momento comincia la fase più brutta della vita di Lina. È rimasta sola, lontana dai suoi, senza appoggi e senza nessuno di cui si possa fidare. Comincia a sospettare di tutti, comincia a mandare continue lettere di protesta sulle cose più banali, nel condominio sta diventando una sorta di spauracchio. Poi cominciano le idee più strane, come quando dopo aver trovato un topino in casa (avveniva spesso in quei tempi anche nelle migliori famiglie) accusa il suo vicino di avere allestito in casa un allevamento di topi per farne pellicce (forse perché lui aveva un negozio di stoffe e confezioni) e che naturalmente, data quella moltitudine di sorci, qualcuno aveva finito per debordare anche in casa sua.
A questo punto il flash back si è ricollegato con la scena iniziale che con ogni probabilità provocò il primo ricovero di Lina in Neuro. Ricovero naturalmente rifiutato in toto dalla signora e dunque, come succedeva a quei tempi, i medici della Neuro si tolgono la patata bollente e fanno un invio obbligatorio al Manicomio.
Qui comincia la vera “carriera” psichiatrica di Lina che conserva il suo atteggiamento altezzoso e un po’ prepotente anche lì dentro. Basta vedere la foto allegata in cartella, dove i lineamenti sono stravolti dalla rabbia, la bocca è ridotta ad una rabbiosa fessura, lo sguardo torvo. Tutto di quella foto pare dire: che ci faccio qui? Lei può relazionarsi solo con il Direttore al quale scrive mille lettere chiedendo il perché si trova lì, protestando per molteplici ragioni, chiedendo comunque un trattamento di favore. La sua scrittura è ordinata e pulita. Eccone un esempio: “Egregio Professore, sono costretta a rivolgermi a lei direttamente per i continui soprusi di cui sono fatta segno sia da parte delle infermiere che dalla M. (forse la caposala) la quale si atteggia a padrona non si sa con quali diritti…” e così via. Protesta contro la radio e la televisione tenute a volume alto dalle infermiere e così continua nella stessa lettera: “…io sono una persona attivissima e non posso stare delle ore in una stanza senza poter scambiare parola, né fare un discorso decente con nessuno…” La sua cartella ha più l’aspetto di un incartamento legale, ricca com’è di lettere, risposte, richieste, proteste.
Insomma il corteo sintomatologico di una sindrome paranoide persecutoria è completo. Da qui in poi la vita di Lina si svolge in buona parte dentro istituti psichiatrici. La famiglia, in special modo una sorella, interviene, la fa trasferire prima alle Ville dei rettanti perché potesse avere un ambiente più consono a lei, poi la riporta a Venezia, nel locale ospedale psichiatrico di San Servolo. Ma nulla cambia nel suo atteggiamento e nonostante l’utilizzo dell’insulinoterapia (una terapia convulsivante, simile all’elettroshock) e dei primi farmaci neurolettici, Lina continua indomita le sue battaglie e vuole sempre tornare a Siena, dove c’è la sua casa. Per seguire i suoi affari viene nominato un tutore, ma naturalmente poco dopo lo accusa di derubarla di soldi e di oggetti. Capita spesso che i ripetuti ricoveri (a Siena sono stati quasi una decina) siano fatti con modalità d’urgenza e spesso c’è bisogno che qualcuno torni in quella casa per controllare se è stato chiuso il gas, la luce, l’acqua, ecc. Ma dopo qualche anno non si trova più nessuno disposto a farlo per non incorrere poi nelle accuse di Lina di rubare le sue cose. Per Lina non c’è modo di vivere in pace col mondo.
È un caso scomodo che sollecita in tutti coloro che le si avvicinano un senso di fastidio e quasi di timore che finisce per accrescere il suo isolamento sempre più forte. Da quello che si può vedere dalla cartella, però, nessuno si è dato la pena di scavare un po’ nel suo passato, anche in quello familiare, per capire meglio di dove scaturiva quell’inestinguibile voglia di litigare, di perseguitare e di sentirsi perseguitata. Tra noi psichiatri, che consideriamo il paranoico come uno dei pazienti più difficili da trattare, gira un detto: è vero che il paranoico delira ma quasi sempre un fondo di verità in quel delirio c’è.
Qual era la verità di Lina? Forse nessuno ha indagato a fondo per trovarla o chissà, magari non c’era alcun segreto da scoprire. È ovvio che il suo atteggiamento aggressivo e altezzoso provocava di rimando atteggiamenti evitanti o scostanti che Lina, a sua volta, finiva per sentire come persecutori. Forse dopo il fallimento tragico del matrimonio tutto si esaltò nella sua mente che probabilmente non recuperò mai un pieno contatto con la realtà. Lina si sentiva sicura solo in casa sua dove viveva asserragliata come in fortino che non voleva lasciare mai. Lo testimonia anche il suo passo d’addio dalla vita. Si ammala di un cancro mammario e viene curata un po’ in manicomio e un po’ a casa. Ma la fine si avvicina, qualcuno la consiglia di tornare al San Niccolò, ma lei resiste, resiste, resiste fino a che il 16 novembre del 1972 accetta di farsi di nuovo ricoverare. Viene ammessa alle 11 e alle 23 dello stesso giorno, Lina muore, costretta così a capitolare definitivamente in quella battaglia che è stata la sua vita.
Se il lettore è stato attento forse ricorderà che nella prima scena un ragazzino era rimasto alla finestra ad osservare quella scena, come affascinato. Senza svelare troppo, voglio però dire che in quel ragazzino quella scena gettò il seme di un interesse, di una voglia di capire, quasi la strana sensazione di essere dalla parte di quella donna così severa, ma che aveva tutti contro.
L’avrete capito, quel ragazzino ero io, ed ho sempre ripensato a Lina con un misto di emozioni, dove c’è il timore che incuteva il suo aspetto perennemente arrabbiato, ma anche un pizzico di rispetto per aver inconsapevolmente indirizzato le mie scelte professionali
Andrea Friscelli