Intervista a Marco Pisaneschi dei Liverpool Station, la nuova tribute band dei “tardi” Beatles
Dal 29 agosto 1966, data di chiusura del tour Nord Americano di quell’anno, allo scioglimento avvenuto nell’aprile del 1970, i Beatles si esibirono live per un solo concerto, quello del 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple Records a Londra. La loro fu un’assenza dai palchi ragionata, dovuta alla volontà di superare l’isterismo della Beatlemania e di concentrarsi nel lavoro negli studi di registrazione.
In quei quasi quattro anni, i Fab Four fecero uscire quelli che sono probabilmente i loro lavori migliori (a cui ci sarebbe da aggiungere il precedente Revolver): Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il White Album e Abbey Road.
Liverpool Station, una band tributo dei Beatles composta da Paolo “Muppets” Marucelli (voce e chitarra), Marco Pisaneschi (voce e batteria), Riccardo “Foggy” Biliotti (basso) e Vieri Marchi (tastiere e voce), intende recuperare in una dimensione live proprio quel repertorio complesso e magico dei tardi Fab Four.
Dopo l’esordio al Tortuga di Poggibonsi, questa sera la tribute band toscana si esibirà nella seconda data al Cacio & Pere di Siena. Per l’occasione, Marco Pisaneschi ci racconta i perché di questo nuovo gruppo omaggio ai Beatles.
Che cos’è il progetto Liverpool Station?
«Nasce dall’idea di Paolo “Muppets” Marucelli e mia di fare un tributo ai Beatles diverso, che non fosse il classico omaggio rock and roll ma che portasse dal vivo quei pezzi che loro non hanno mai suonato live. Dal 1966, infatti, smisero di fare concerti. Un tributo del genere non l’ho mai visto in giro».
Quanto tempo vi è stato necessario per preparare i brani?
«C’è voluto circa tre mesi. Ci sono stati tanti arrangiamenti sia vocali che di archi, organi, fiati e così via a cui approcciarsi. Quelli che proponiamo live, non sono i pezzi immediati del primo periodo beatlesiano, quindi c’è stato un bel lavoro dietro per poterli suonare dal vivo decentemente. I Fab Four sui dischi usavano molte sovraincisioni, noi dobbiamo fare tutto in quattro».
I brani rendono anche in una versione meno condizionata dai ricchi arrangiamenti?
«Ci proviamo. Per quanto possibile, infatti, cerchiamo di mantenere l’arrangiamento originale. Siamo tre voci e il tastierista fa un grosso lavoro sia di pianoforte che di archi, sfruttando due tastiere. In un pezzo usa persino una fisarmonica».
Vi siete divisi le parti vocali per ogni singolo Beatle? C’è chi fa Paul, per esempio?
«No, dipende dal pezzo. I cantanti solisti siamo io e Paolo, Vieri, il tastierista, fa i cori. Ci siamo divisi i brani a seconda del gusto personale e della resa».
Da questa esperienza, che cosa è venuto fuori che non sapevate già sui Beatles?
«Quando ascolti e analizzi i loro pezzi, ci trovi sempre cose nuove. E’ il fascino della musica dei Beatles. Ogni ascolto ti fa scoprire qualche dettaglio di cui non ti eri mai accorto».
Qualche critico musicale ha definito la loro musica come semplice. Lei è d’accordo?
«No, le canzoni dei Beatles sono davvero molto complesse. Se prendi le parti in sé, ad esempio quelle di batteria di Ringo, sono tecnicamente facili ma quello che sorprende sono le idee che ci stanno dietro».
Emilio Mariotti