L’Olocausto, ovvero ciò che non vogliamo vedere nella ragione umana

Olocausto e buio della mente: nel giorno della memoria 2022 abbiamo scelto di dare spazio ai pensieri dei giovani, in questo caso scegliendo un tema – un compito in classe – di un’alunna del liceo classico. Perché forse nessuno più dei ragazzi può trasmettere la sensazione del mondo visto dall’esterno, con uno sguardo più oggettivo. L’orrore dell’olocausto raccontato attraverso la conoscenza e la ragione e il buio della mente spiegato attraverso la cultura, in una analisi matura che ancora una volta lascia trasparire quanto lo sguardo dei giovani sia necessario per vedere davvero il mondo. Loro, che sono forza e vivacità e curiosità, non sono ancora avviluppati dalla patina che impedisce di vedere le cose come stanno davvero. Per questo riescono a essere  – e a dare –  energia positiva e impulso di crescita anche a noi che leggiamo, incapaci spesso di sviscerare fino in fondo certi argomenti. Per paura di noi stessi o semplicemente perché viziati dai mondi paralleli dietro i nostri schermi.

K.V.

 

L’Olocausto, anche per la sua vicinanza cronologica ai giorni nostri, è un evento storico che finisce sempre per toccarci nel profondo e ci porta spesso a interrogarci sulla vera natura dell’uomo e sul contrasto, antico come il mondo, tra la sua parte razionale e quella barbara. Ciò a cui, tuttavia, generalmente non pensiamo è la possibilità che sia la ragione stessa a scegliere dove orientarsi e che, dunque, nella psiche umana non esistano due poli agli antipodi, ma due opposte deviazioni della medesima facoltà.

Si può parlare di un’Europa che, dopo un evento di tale portata, ha perso la speranza nella ragione, ma si tratta sostanzialmente della fiducia nell’inclinazione positiva di quest’ultima.

Noi europei, infatti, siamo figli legittimi di un mondo greco e romano che percepiva la razionalità come elemento principe della natura umana, la linea di confine tra uomo e bestia. Nell’Atene del V secolo a.C., l’oratore Isocrate basava proprio sull’uso della ragione la distinzione tra Greci e barbari: i Greci erano coloro che esercitavano di più il lógos, ossia il pensiero razionale espresso dalla parola, grazie al loro governo democratico, mentre i barbari Persiani, sudditi inermi di un sovrano assoluto, erano costretti a manifestarla in misura inferiore. Nella cultura latina, poi, Cicerone scinde il lógos in ratio, ragione, e oratio, parola. Tale visione affonda le radici nel pensiero stoico, nato nella Grecia di età ellenistica; lo stoicismo attribuisce al termine lógos un significato ancor più profondo, identificandolo come il fuoco primigenio che unisce l’essere umano all’ordine provvidenziale insito nella natura, non di rado chiamata dio. Ciò ha una diretta implicazione sull’etica: l’uomo è vocato all’«humanitas», la benevolenza verso gli altri uomini, in virtù della comune ragione e della cultura.

Dunque si può dire che la civiltà europea, sin dagli albori, associ la ragione buona a Dio. È proprio a partire da questa idea, però, che  l’Olocausto segna uno spartiacque fondamentale nella nostra storia recente, perché è da lì che la figura di Dio, non a caso, comincia a sbiadire. Pensiamo, ad esempio, al romanzo «La notte» di Elie Wiesel, breve autobiografia di un ebreo internato nel campo di sterminio di Auschwitz e poi in quello di Buchenwald, in cui la riflessione del protagonista si concentra sulla sua progressiva perdita di quella fede abitudinaria in un Dio benevolo, specialmente dopo l’atroce morte del padre.

Dio si perde perché va perso il lógos, o forse perché ci si rende conto che Egli, o meglio ciò che la Sua immagine rappresenta, non è onnipotente nei riguardi delle azioni umane, o ancora Gli si rimprovera di aver dotato l’uomo di un ingegno multiforme, come quello di Odisseo: eroe nel bene e nella sete di conoscenza, eroe nel male e nell’inganno del cavallo di Troia.

Ed è proprio attraverso il passaggio storico dell’Olocausto che la coscienza comune europea giunge a comprendere la declinazione maligna della ragione umana, cioè la barbarie, la violenza: si capisce, allora, che la devastazione provocata dal nazismo non può essere il frutto di quella che spesso viene ritenuta una follia omicida; al contrario, l’Olocausto è potuto esistere ed ha potuto assumere tali dimensioni proprio in quanto frutto di una meticolosa propaganda, studiata sul desiderio di riscossa che aleggiava in Germania già dalla Prima Guerra Mondiale, ha potuto avere successo in quanto frutto di un lucido piano di purificazione della razza e di un sistema di problem-solving (non a caso il Führer aveva escogitato la cosiddetta soluzione finale) crudele, ma calcolato al millesimo: ne era la prova quella fittissima rete di campi di morte che attraversava il Vecchio Continente. L’umanità aveva raggiunto uno dei suoi punti più bassi, portando sotto zero la capacità di fermarsi di fronte alla sofferenza e sostituendola, invece, con la volontà di procurare dolore.

Viene, allora, da chiedersi come mai si cerchi così spesso di spiegare il tutto con la malattia mentale di Hitler, peraltro mai verificata, e di negare quella che sempre di più appare come un’oscura declinazione dell’umano raziocinio; viene da domandarsi perché ancora non si riesca a concepire una via di mezzo in quel ragionamento, tanto frequente quanto semplicistico, che ci vuole barbari per natura e buoni per ragione e cultura.

L’unica risposta che possiamo darci è che abbiamo paura di noi stessi, di quello che la nostra mente è in grado di fare, il che ci spinge a connotare il male razionale come un tabù da tenere a bada, anziché come un aspetto da riconoscere per discernere ciò che è bene e ciò che è male e, solo così, stigmatizzare quest’ultimo.

È arduo capire che cosa possa fare la cultura al cospetto di certe male inclinazioni del lógos, specie se consideriamo che l’Olocausto fu voluto da un governo e assecondato o taciuto da buona parte del popolo tedesco, che di fatto si ritrovò a desiderare di proteggere la propria secolare cultura e la propria razza, usando come scudo l’antisemitismo. Dunque, a giudicare dalla storia, deduciamo che la cultura può essere un’arma di contrasto, in ciò che noi giovani tentiamo di fare oggi, ossia ricordare, riflettere e interpretare i fatti di quel terribile periodo; tuttavia, nel peggiore dei casi, la cultura può ritrovarsi ad assecondare il nostro male, ed è bene esserne consapevoli per evitare che possa accadere ancora, ai giorni nostri, in quelli a venire, a noi o ai nostri figli.

 

Sofia Alessandri

classe 5A, Liceo Classico “E.S. Piccolomini”