Il 21 dicembre 1296 il Consiglio della Campana approva uno statuto in base al quale ogni singolo cittadino doveva venire a conoscenza delle regole da seguire per prendere parte all’opera di spegnimento di un incendio. All’annuncio del fuoco, dato col suono della campana oppure da un banditore, un certo numero di persone che svolgeva mestieri quali i “portatores” di biada, gli asinai, i vetturali, i falegnami ed i muratori, che in precedenza avevano prestato giuramento per fornire la loro opera, si mettevano in moto per domare le fiamme. L’attrezzatura a loro disposizione era povera e scarsamente efficace e, generalmente, consisteva in recipienti per portare l’acqua, come i coppi di terracotta, in stracci umidi da innalzare sulle pertiche per spengere i focolai più alti, oltre a ramponi, scale, scuri, accette, seghe con le quali abbattere le muraglie per circoscrivere le fiamme. Alla fine del XIII secolo, quindi, pur non esistendo a Siena un corpo dei pompieri nel senso moderno del termine, era tuttavia operante un gruppo scelto di persone che sapevano come muoversi in situazioni di emergenza. Per l’uomo medievale, sia che vivesse in città sia che abitasse in piccoli villaggi di campagna, gli incendi rappresentavano una paura con la quale era necessario fare i conti ogni giorno. Al pari di guerre, pestilenze e carestie il fuoco era sentito come una vera e propria calamità e così, infatti, lo descrive Paolo di Pace da Certaldo nel Trecentesco Libro di buoni costumi: “Molto (ti guarda da questi pericoli), in però che molto sono grandi e di grande rischio: ciò sono, fortuna di mare, e di fuoco e d’acqua corrente, e di furore di popolo, e di correre di uno cavallo o molti, e di lingua di ria femmina, e di signoria di villani, e di corsali di mare, e di schierani di terra”.
di Maura Martellucci e Roberto Cresti