Siamo arrivati al 1985, anno dell’ultimo duplice omicidio attribuibile al Mostro di Firenze. L’allarme sociale è ormai altissimo, le coppie si appartano nel centro della città; nelle campagne toscane, luogo degli orribili delitti, le forze dell’ordine hanno organizzato delle squadre civetta, macchine blindate con all’interno due agenti, un uomo e una donna, in atteggiamenti che possono far presumere all’assassino di trovarsi di fronte ad una normale coppietta.
Tutti questi elementi sono da tenere in considerazione, perché l’ultimo delitto riserba i colpi di scena più clamorosi del caso, con annessi errori investigativi di non poco livello, che spostano totalmente l’indagine dalla cosiddetta pista sarda ai compagni di merende Pacciani, Vanni, Lotti e via dicendo, lasciando aperti dubbi e controversie riguardo la fine di questa triste vicenda.
La descrizione della criminodinamica di quest’ultimo delitto è stata ampiamente descritta correttamente negli articoli precedenti; vale la pena soffermarsi su alcuni punti riguardanti la datazione corretta dell’omicidio e la voglia che ancora il Mostro dimostra di avere nel comunicare con quello che pensa essere esterno rispetto al suo mondo di morte.
Innanzitutto non deve stupirci il fatto che le vittime questa volta si trovassero all’interno di una tenda. Due sono le cose da analizzare: il fatto che i due ragazzi fossero stranieri, e dunque probabilmente non del tutto a conoscenza della serie omicidiaria del Mostro di Firenze, e la presenza delle auto civetta. Questo potrebbe essere stato un elemento di cui l’assassino era a conoscenza, spingendolo ad andare sul sicuro, attaccando dei turisti all’interno di una tenda da campeggio. Si può ipotizzare che il killer fosse un qualcuno all’interno delle forze dell’ordine? Non ci sono elementi cristallini che supportano una tesi del genere, anche se la circostanza è degna di essere tenuta in considerazione. Oltretutto, il Mostro sposta la sua attenzione e la sua voglia di comunicare, non più su un contesto di massa, quando sembrava più o meno ispirarsi alle gesta di anti eroi cinematografici o del fumetto, ma verso i titolari dell’inchiesta: prima invia la lettera con il feticcio della ragazza francese alla dottoressa Della Monica, l’unica donna che interviene nell’indagine, anche se all’epoca di tale delitto non faceva più parte del pool investigativo, successivamente invia i proiettili ai PM uomini, operando quasi un simbolismo e un parallelismo fra gli inquirenti e le vittime femminili deturpate dalle escissioni, e i ragazzi uccisi dal piombo della beretta.
La lettera col lembo di seno di Nadine Mauriot viene inviata da San Piero a Sieve, a 50 km dagli Scopeti, dove avviene il delitto. L’intento del Mostro era probabilmente quello di far recapitare la lettera prima della scoperta dei cadaveri dei ragazzi francesi. Anche la scena del crimine viene costruita per occultare e far ritardare il ritrovamento: l’uomo coperto da barattoli di latta, la donna all’interno della tenda, come se dormisse.
Il problema della datazione di quest’ultimo omicidio è un punto cruciale: sicuramente perché se il delitto fosse avvenuto uno, o addirittura due giorni precedenti rispetto al ritrovamento dei cadaveri, questo farebbe cadere la testimonianza del Lotti che colloca Pacciani sul luogo dell’omicidio il giorno 8 settembre. Rispetto alla prova testimoniale, sappiamo che la prova scientifica ha valenza più precisa e valore probatorio più forte; l’entomologia forense, lo studio sullo sviluppo delle larve sui cadaveri dei due ragazzi francesi, fa risalire l’epoca della morte ad almeno 24-36 ore prima del ritrovamento.
C’è un altro dato interessante che riguarda proprio la testimonianza: alcuni testimoni dichiareranno di aver visto Nadine domenica mattina, in un bar del paese a fare colazione. Quello che poi sapremo è che la foto che viene mostrata ai possibili osservatori è la foto della carta d’identità, nella quale Nadine appariva estremamente differente rispetto alla realtà: capelli corti, di età diversa rispetto al 1985, anno in cui portava un taglio di capelli diverso, più lunghi.
Difficilmente si sarebbe potuto riconoscere la Nadine di allora, rispetto a quella della carta di identità. Per quanto riguarda lo stato psicologico di un possibile testimone, va tenuta in considerazione la suggestionabilità che spesso porta a vedere cose che effettivamente non esistono.
Questo lungo viaggio intrapreso per cercare di capire come la campagna toscana sia stata per quasi venti anni un luogo di morte, credo sia stato utile per aprire nuovi scenari di indagine, e sicuramente per conoscere più da vicino quello che probabilmente è stato il serial killer più complesso e particolare della storia italiana. Non a caso nel primo articolo l’ho definito quasi un Jack the Ripper italiano, capace come questo di far perdere le sue tracce e, anzi, di non dare neanche un appiglio agli investigatori, procedendo meticoloso per la sua strada senza errori, sfidando apertamente non solo gli inquirenti, ma tenendo sotto scacco una società intera, scioccata e costretta a radicali cambiamenti.
L’auspicio è che le storie di questi ragazzi non cadano nell’oblio che troppo spesso caratterizza il nostro sistema giudiziario; ancora oggi non ci sono risposte, solo un groviglio di informazioni e testimonianze confuse e nebulose.
Giulia Morandini
Criminologa
Università La Sapienza Roma
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