E’ il 10 settembre 1985 e presso la Procura della Repubblica di Firenze viene recapitata una missiva imbucata in una cassetta della posta di San Piero a Sieve: all’attenzione di: DOTT.DELLA MONICA SILVIA – PROCURA DELLA REPUBLI – CA 50100 FIRENZE. Il destinatario e l’indirizzo sono scritti con l’utilizzo di lettere ricavate da ritagli di giornale, all’interno un foglio di carta ripiegato e incollato che al suo interno contiene una busta di nylon contenente un lembo di tessuto umano, parte del feticcio ricavato dall’amputazione del seno sinistro della povera Nadine Mauriot. Il mostro invia la macabra lettera alla donna che, fortemente indirizzata sulla pista sarda, si era ormai allontanata dalle indagini, ma che evidentemente, per lui, aveva ancora una grande valenza di sfida.
La donna che a San Piero a Sieve sembrerebbe aver avuto una residenza, la donna che più di tutti aveva evidentemente un valore. Non è possibile immaginare diversamente se pensiamo il rischio di spostarsi con una busta in tasca contenente una parte di tessuto umano appartenuto all’ultima vittima. D’accordo, possiamo immaginare che il mostro si sia recato in un luogo dove nessuno lo conosceva, lontano dalle sue frequentazioni abituali, a distanza di cinquanta chilometri dall’ultima piazzola dell’orrore, ma sempre e comunque un rischio sarebbe stato, un rischio che ancora una volta avrebbe aumentato il suo ego, il proprio senso di invincibilità. La lettera era stata imbucata, appunto, in una cassetta della posta di San Piero a Sieve. L’ultimo prelievo posta era stato effettuato il 7 settembre non più tardi delle 12, la lettera per la dott.ssa Della Monica fu prelevata il lunedì mattina e consegnata quando ormai i corpi dei due ragazzi erano stati trovati e quindi imbucata tra il pomeriggio del sabato e la sera/notte della domenica.
Questa sarà solamente la prima di una lunga lista di missive presumibilmente attribuibili al killer delle coppiette. Il 20 settembre al quotidiano La Nazione arriverà un messaggio anonimo: “Sono molto vicino a voi, Non mi prenderete se io non vorrò. Il numero finale è ancora lontano. Sedici sono pochi. Non odio nessuno, ma ho bisogno di farlo se voglio vivere. Sangue e lacrime scorreranno tra poco. Non si può andare avanti così. Avete sbagliato tutto. Peggio per voi. Non commetterò più errori, la Polizia si. In me la notte non finisce mai. Ho pianto per loro. Vi aspetto”. Appena una settimana dopo si verrà invece a sapere che il 10 settembre, un infermiere dell’ospedale di Ponte a Niccheri aveva rinvenuto un proiettile marca Winchester con lettera H sul fondello sotto le rampe di accesso al garage della struttura ospedaliera e che, questo, aveva portato, durante una perquisizione all’istituto sanitario, al rinvenimento di una lista con nomi di medici e professionisti sospettati di avere un qualche legame con la vicenda del mostro di Firenze, ma che fino ad allora era rimasto documento secretato. Il primo di ottobre anche i sostituti procuratori Francesco Fleury e Paolo Canessa ricevettero una busta anonima contenente un articolo de La Nazione titolato “ALTRO ERRORE DEL MOSTRO – La notte del delitto tutte le strade erano controllate e la sua auto potrebbe essere stata segnalata da un casellante” ; attaccato su di un lato il dito ricavato da un guanto di gomma gialla con all’interno un proiettile Winchester con lettera H sul fondello. A lato dell’articolo, come un appunto, la scritta: “Uno a testa vi basta?”. A pochi giorni di distanza anche il sostituto procuratore Pier Luigi Vigna riceverà una busta anonima contenente un dito ricavato da un guanto di gomma gialla con all’interno un proiettile e due guanti di gomma integri.
Nel frattempo gli investigatori vanno avanti ed il sostituto procuratore Adolfo Izzo punta a dimostrare come Salvatore Vinci sia stato già in grado di uccidere durante la sua vita e lo fa attraverso un’indagine serrata che coinvolgerà i parenti ed i conoscenti di Barbarina Steri, prima moglie del Vinci e ufficialmente suicidatasi. Verrà messa sotto i riflettori l’amicizia tra Salvatore Steri, fratello di Barbarina, e il Vinci: un’amicizia molto intima che secondo alcuni sarebbe stata il motivo del matrimonio combinato tra la Steri e Salvatore. Al tempo stesso si torna ai duplici omicidi di Signa, Giogoli e Vicchio, cercando di dimostrare la mancanza di alibi per Salvatore. Non entriamo nei particolari di quanto emerse (molto abbiamo già anticipato nei precedenti articoli), ma è importante ricordare che in più occasioni le persone sentite non mancarono di sconfessare quanto riportato dal Vinci sia in merito al suicidio della moglie sia agli alibi da lui forniti per le sere dei duplici omicidi. Il comune denominatore dei familiari di Barbarina Steri e dei protagonisti di Signa e Firenze fu sempre lo stesso: era stato Salvatore a chiedere loro di sostenergli gli alibi. Il 26 ottobre 1985 il giudice Mario Rotella ed il S.P. Adolfo Izzo inviarono una comunicazione giudiziaria a Salvatore Vinci e Salvatore Steri, fratello di Barbarina, per concorso in omicidio di quest’ultima.
L’11 giugno del 1986 la Procura di Cagliari chiede l’arresto di Salvatore Vinci per l’omicidio della prima moglie Barbarina Steri avvenuto ben 26 anni prima. L’uomo verrà incarcerato a Tempio Pausania in attesa del processo che si terrà a Cagliari solamente due anni più tardi. Due anni di galera in cui si alternano periodi di isolamento e reinserimento nella comunità carceraria, in cui si cambiano compagni di cella, in cui si continua assiduamente a parlare con i magistrati fiorentini relativamente alla vicenda Mostro di Firenze. La finalità è chiara. Dopo i grandi errori giudiziari commessi negli anni passati, questa volta, non è possibile sbagliare. I processi si fanno con le prove e, forse, a carico di Salvatore Vinci esistono solamente un grandissimo mucchio di soli indizi. E’ evidente che, una condanna per omicidio, potrebbe consentire un rinvio a giudizio anche per le 16 vittime del mostro. E’ chiaro che dalla vita carceraria ci si aspetta una confessione.
Nel mese di novembre del 1986 Salvatore fu trasferito in Toscana per essere interrogato dai magistrati fiorentini che ormai da mesi, imputano al Vinci tutti i delitti del mostro di Firenze. Chiesero lui dello straccio sporco di sangue e polvere da sparo rinvenuto all’interno della sua abitazione, delle incongruenze sugli alibi forniti, sul suo rapporto con Barbara Locci e con il fratello Francesco. In più occasioni Salvatore non seppe fornire logiche risposte, ma soprattutto negò anche quelle che erano le sue abitudini di vita, le più ovvie verità relative alla sua personalità. Solamente in tre occasioni Salvatore sembrò rivendicare una lucida e coerente realtà: il ricordo della madre scomparsa, la spontanea decisione di ricovero presso la clinica di malattie nervose e l’amicizia con Salvatore Steri in Sardegna e Saverio Biancalani in Toscana. La madre, la capacità di chiedere aiuto, le amicizia fedeli. Tre punti fermi, tre certezze che fanno di un qualsiasi uomo solo, incarcerato, di nuovo abbandonato un valido motivo di pianto e commozione anche se di fronte agli inquirenti, anche se di fronte a coloro che sono i suoi maggiori accusatori.
Il giorno successivo all’interrogatorio fu effettuata una nuova perquisizione nell’abitazione di Salvatore Vinci. In quella occasione furono sequestrati due rullini fotografici. Dalla stampa risultarono foto scattate durante una vacanza, presumibilmente all’Isola d’Elba, ad una coppia di ragazzi appartati in auto, tre fari portatili, un’agenda telefonica e, in un sotterraneo, un po’ di gesso.
Ad un anno di distanza, nel novembre del 1987, Salvatore Vinci fu nuovamente sentito in merito al panno, macchiato di sangue e polvere da sparo, sequestrato nella sua abitazione e di cui ancora non era stata compresa la provenienza. Salvatore continuò nel ribadire la sua completa ignoranza rispetto a quel reperto dal momento che lui non aveva mai posseduto un’arma da fuoco. Salvatore sarebbe stato l’unico a poter fornire informazioni relativamente a quel pezzo di stoffa; subito dopo il suo ritrovamento in quell’armadio della camera da letto del Vinci non furono fatti approfondimenti, nessuno aveva disposto un esame, il pubblico ministero non comunicò al Giudice Istruttore la presenza di quel reperto poiché, parafrasando, era assurdo pensare che un sospettato conservasse in casa una prova così importante da poterlo inchiodare. Quando, mesi più tardi, il Giudice Rotella ne chiese l’esame, risultò, comunque, tutto inutile in quanto non erano stati conservati i campioni autoptici del plasma delle vittime dei duplici omicidi.
Siamo nel 1988 e, a Cagliari, Salvatore Vinci viene processato per l’omicidio di Barbarina Steri. E’ talmente chiaro a tutti che quello è un processo ad un “futuro” mostro di Firenze che gli avvocati difensori dichiareranno: “Se vogliono processare Vinci per i delitti del Mostro lo devono fare direttamente, non prendendo questo episodio come scusa.”
Il 19 aprile 1988, dopo che l’accusa si era vista rifiutare una perizia psichiatrica a carico dell’imputato ed aveva rinunciato all’arringa, la Corte di Assise di Cagliari dichiara Salvatore Vinci non colpevole dell’uxoricidio della prima moglie Barbarina Steri, in quanto il fatto non sussiste. Soddisfatto, Salvatore dichiarò ai giornalisti: “E’ stata una soddisfazione molto bella. Ringrazio i miei avvocati, che hanno sempre creduto alla mia innocenza e mi hanno difeso gratuitamente per riparare al torto subito con il mio arresto e l’incriminazione. Ringrazio anche la Corte che mi ha giudicato con serenità. Appena uscirò dal carcere andrò a Villacidro da mia sorella Gina. Vi prego: non cercatemi, non disturbate i miei familiari, non chiedetemi interviste. La prima cosa che desidero fare è prendere un caffè ristretto. Stasera, poi, andrò a dormire più sereno e più tranquillo”. Dal novembre 1988 scomparirà rendendosi irreperibile all’autorità giudiziaria. Comparirà da uomo libero a Firenze nel 1993, ma il suo nome cadrà nell’oblio fino a qualche mese fa, quando qualcuno era già convinto della sua morte, quando la sua presenza già ipotizzata in Spagna viene confermata nei pressi di Saragozza.
Gli avvocati difensori alla stampa: “Con Vinci volevano arrivare al maniaco che uccide le coppie e la sua carcerazione fu strumentale per continuare e ottenere risultati nelle indagini. Ma la montagna fiorentina ha partorito topolini piccoli e malformati che hanno fatto sorridere. Questo doveva essere un processo al mostro , ma il diabolico grimaldello giudiziario qui da noi non ha funzionato”.
In cuor nostro, a quasi trent’anni da quella sentenza, non ce la sentiamo di dire se abbia o meno “funzionato”. Sappiamo per certo che il mostro di Firenze ha smesso di uccidere, sappiamo per certo che negli stessi anni la Procura fiorentina ottenne meritatamente pregio e lustro in merito ad altre vicende che stavano oscurando l’immagine del nostro paese e la sicurezza nazionale, sappiamo che grazie al Procuratore Fleury fu stroncata in Toscana quell’associazione malavitosa passata alla storia come Anonima Sequestri Sarda.
Il 13 dicembre 1989, su richiesta della Procura di Firenze e con Salvatore Vinci ancora latitante, il Giudice Istruttore Mario Rotella, mette la parola fine alla pista sarda con l’ordinanza – sentenza in cui “si dichiara il non doversi procedere contro Vinci Francesco in ordine a tutti i reati a lui ascritti (…)per non aver commesso il fatto; contro Mele Giovanni, Mucciarini Piero, Chiaramonti Marcello, Vinci Salvatore per non aver commesso il fatto, in ordine a tutti i reati loro ascritti; contro Mele Stefano, relativamente all’imputazione di calunnia(…), perché il fatto non costituisce reato; contro Pierini Ada, per il delitto di falsa testimonianza, perché estinto per intervenuta amnistia.”
Nelle motivazioni, che a nostro avviso rappresentano più una resa che una reale convinzione di innocenza: “Le conclusioni intorno a Salvatore Vinci sono le conclusioni intorno alle indagini…. Non si è in presenza di indizi che possano evolversi in prova. E la prova, in processi che hanno per oggetto eventi materiali di questa portata, non può essere che reale…… È convinzione, puramente razionale, e nient’affatto intuitiva, come tale suscettibile di dimostrazione in contrario, che nell’accaduto del 1968 sia comunque la chiave per scoprire la verità….
Alla luce di quanto si è sinora ritenuto, in fatto e diritto, tutti gl’imputati dei duplici omicidi e delitti connessi devono essere prosciolti con la formula per ‘non aver commesso il fatto…. Alla luce della nuova normativa, è indifferente per il proscioglimento se si sia pervenuti alla prova positiva d’innocenza o se sia carente quella di colpevolezza, o ancora se gl’indizi di colpevolezza siano meramente insufficienti per un giudizio”.
Sta finendo l’anno 1989 e noi ci fermiamo qui. Finisce qui il nostro viaggio intorno alla vicenda del Mostro di Firenze, finisce con questa frase del Giudice Rotella che, meglio di qualsiasi altro commento, fa capire quanto forzato sarebbe continuare il nostro percorso raccontandovi di un altro uomo, attenzionato dalle forze dell’ordine grazie ad una lettera anonima (vi avevamo già raccontato di come anche la famiglia Vinci entrò nell’inchiesta grazie ad un ricordo o ad una missiva, senza mittente, immediatamente dopo il duplice omicidio di Baccaiano), colpevole di aver già ucciso nel passato a causa del tradimento della fidanzata (poche righe fa avete letto del processo a Salvatore accusato di aver ucciso la moglie per gelosia), ossessionato dal sesso (ricordiamo tutti il profilo psicologico e sessuale del Vinci), violento con i familiari (nei nostri articoli non abbiamo tralasciato le testimonianze di Rosa Massa e Ada Pierini), amico di un gruppo di uomini di dubbi principi (non credo abbiate dimenticato le caratterizzazioni che circondavano il mondo familiare e di conoscenze di Salvatore Vinci). Quest’altro uomo non era sardo, ma veracemente radicato nella cultura contadina Toscana, quest’altro uomo si chiamava Pietro Pacciani e di suoi amici erano Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Altra storia, altri racconti; noi ci fermiamo qui e da qui ci piacerebbe che qualcuno ripartisse, anche attraverso le nuove tecnologie ed i reperti ancora analizzabili, perché la paura di fare un buco nell’acqua o di averlo fatto in passato è lecita e comprensibile, ma, parafrasando Salvatore Vinci, ci piace anche pensare che solo a chi rischia è consentito sbagliare.
Andrea Ceccherini