foto di Francesco Laezza
Il rumore di una grossa chiave che gira, un portone che cigola e si apre piano e davanti un cortile, a metá tra luci e ombra e una scalinata in pietra con un grosso corrimano e di nuovo una chiave che gira, ma ad aprirsi questa volta è un cancello. Quando la luce si accende e qualche scalino dopo, sotto centimetri di polvere si svela la storia. Eh si, perché quel sottile strato di polvere non sa di abbandonato, ma sa di storia, di fascino ed è come un velo che quasi sottolinea quanto rara e preziosa sia la bellezza di questo posto. Un posto, come tanti a Siena e dintorni, cui troppo spesso passiamo davanti e non facciamo caso: questo è il palazzo del Capitano, proprietà della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
Quello che ci si trova davanti camminando tra quei corridoi è qualcosa di disarmante tanto è bello. Un gusto tardo duecentesco, in memoria del periodo di massimo splendore senese, inquadrato nel massimo esempio di arte neogotico senese dell’ottocento è ciò con cui l’Architetto Giulio Rossi e l’allievo Lorenzo Doveri realizzarono per conto della famiglia Piccolomini, allora proprietaria del palazzo. L’impianto architettonico però è solo la cornice di un meraviglioso patchwork di materiali preziosissimi. Uno di questi è il marmo giallo, tipico della zona toscana e meglio noto come “broccatello”. Con questo tipo di marmo che ha pochissime venature sono state realizzati i lavabi che sono rimasti intatti e che hanno sulla loro superficie lo stemma della famiglia Piccolomini. Questo marmo però si ritrova anche sugli architravi delle porte a contrasto con l’ebano scuro delle porte che furono intagliate dai maestri Zanobi Gradi e Antonio Rossi con una finezza e una maestria incredibili: queste porte infatti sono state lavorate come fossero tele e raccontano ognuna una storia. Ma poi le porte si aprono e come scrigni preziosi ti mostrano il vero tesoro e il vero tesoro sono gli affreschi delle stanze che si sono conservati nel tempo.
Guardandosi intorno sembra ancora di sentire l’orchestra che suona nella sala delle Quattro stagioni oppure nella sala Piccolomini – dove si trova l’affresco dell’albero genealogico – di sfogliare un vecchio album di ricordi. E poi ci sono la sala e il corridoio che ci permettono di datare il palazzo a prima del 1859, perché raffigurano l’anima di Siena attraverso gli stemmi delle contrade e della civitas, che però non hanno i distintivi sabaudi. In questo salone campeggia lo stemma della Nobile Contrada dell’Aquila (che probabilmente qui faceva le assemblee) e attorno ad esso gli stemmi delle altre sedici Contrade senesi che, vuoi per i colori e la loro ripartizione, vuoi per il tratto meno dettagliato o appunto la mancanza dei marchi sabaudi , sono davvero molto distanti da quelli attuali. Passata una piccola porta ritorniamo nel corridoio principale e un ritratto di Pio II e la lupa con i gemelli affrescati sulla parete del cancello da cui eravamo entrati sembrano salutarci, il portone si richiude alle nostre spalle.
Alziamo ancora una volta lo sguardo e gli occhi si posano su altri stemmi in legno che decorano i merli, quasi come fossero un elemento di continuità con l’interno di questo scrigno prezioso appena visitato e che rappresentano le famiglie cui il palazzo è appartenuto negli anni. Ora il palazzo appartiene alla Fondazione, ma in questo momento storico non appartiene del tutto alla città perché non è fruibile. Eppure è un pezzo di storia che rimane nascosto, proprio accanto alla luce immensa del Duomo e del Santa Maria della Scala. Una risorsa enorme che fa parte del già enorme patrimonio culturale della città e che potrebbe essere, speriamo grazie anche al nostro racconto, un modo per riportare alla luce la gloria della nostra amata Siena.
Vittoria Guideri
Maria Vittoria Manganelli
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