Il 25 giugno del 2008 muore Lazzero Beligni detto Giove. Era nato a Siena, in Fontebranda, il 20 febbraio del 1927. Fu registrato con il nome di battaglia di Giove (soprannome datogli dal capitano del Drago, al primo Palio, per come Lazzero appariva determinato e sicuro di sé, come il re degli Dei). Fu conosciuto anche come “Freccia” o “il Macellaio”, ma quest’ultimi erano soprannomi accessori che non furono mai omologati. E del resto anche il soprannome ufficiale – Giove – non attecchì mai, perché per tutti e per sempre fu solo Lazzero (forse anche per il fatto di avere un nome così inusuale e particolare da sembrare esso stesso un soprannome). Corse ben 40 Palii senza mai vincere. Eppure ebbe un ruolo determinante in molte carriere e ammise, in varie interviste, di aver guadagnato forse più così che puntando alla vittoria. Racconta lui stesso: “Una volta Tristezza vinse il Palio e prese un milione. Io arrivati ottavo e presi il doppio”. Lazzero capì, forse come pochi fantini, il
Palio in tutte le sue sfaccettature fatte di intrighi e strategie e per questo fu l’ago della bilancia che in più di un’occasione determinò, comunque, sconfitte e vittorie di fantini e contrade. Indossò il giubbetto di 14 Contrade e non corse mai nella Giraffa, nella Torre e nel Valdimontone. Amico fraterno di Vittorino, forse proprio per la sua conoscenza profonda di ogni dinamica paliesca, è stato il solo ad aver ricoperto – dopo il ritiro dalla Piazza – il ruolo di mangino di una Contrada. Logicamente la sua: l’Oca. Aveva esordito nel 1954 nel palio d’agosto, correndo nel Drago su Saturnia e la sua ultima carriera fu quella del 17 agosto del 1975 con il giubbetto del Leocorno su Solange quando aveva ormai poco meno di cinquant’anni. Nell’agosto del 1959 era stato contattato dalla Torre (proprio su indicazione di Vittorino) per indossare il giubbetto di Salicotto: raccontò lui stesso in un’intervista che la capitana, la marchesa Zondadari, gli si presentò con un assegno in bianco
chiedendogli “quanto ci devo scrivere?”, ma lui rifiutò perché, come sosteneva, non se l’era sentita di correre e impegnarsi per la rivale della sua contrada di nascita. Nella sua Oca corse tre volte (in realtà dovevano essere quattro ma nel luglio del 1963 la cavalla Elena si infortunò e venne ritirata) e tutte e tre con cavalli poco favoriti o difficoltosi: il 2 luglio del 1966 sulla sconosciuta Durinda; il 17 agosto dello steso anno su Ercole, cavallo forte e veloce ma macchinoso e scorretto. Tornò a indossare il giubbetto di Fontebranda il 2 luglio 1972 quando all’Oca toccò Panezio che, in quel Palio, era all’esordio: Aceto non volle montarlo perché sostenne che era un cavallo che non andava nemmeno a “pintàllo”, come si dice a Siena. Lazzero, al contrario, ne aveva intuito le doti, ma, raccontava ancora lui stesso, non era riuscito a convincere di questo i dirigenti della sua contrada che preferirono fargli fare una corsa strategicamente non puntata a vincere ad ogni costo. Per
la cronaca, Panezio si portò dietro la taccia di “ciuco” anche nelle due successive carriere di quell’anno, nell’agosto nel Nicchio con Rondone e a settembre nel Bruco con Canapino. Poi, l’anno dopo, Panezio tornò sul tufo trasformato (o forse in mano a chi ne aveva davvero capito le potenzialità): toccò alla Lupa e all’Aquila e vinse tutt’e due le volte incominciando una storia di otto vittorie che lo avrebbero consegnato alla storia dei grandi cavalli del Palio.
Maura Martellucci e Roberto Cresti
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