Ci sono voci che sono capaci, in pochi minuti, di raccontare una storia andando oltre le immagini. Di regalare emozioni. Che, con il passare del tempo, entrano a far parte dell’immaginario di un popolo intero. “E Siena trionfa immortale”: così Silvio Gigli concludeva ogni trasmissione da Piazza del Campo. Divenuto uno degli speaker più celebri della radio dall’immediato dopoguerra agli anni ’60, Gigli è stato il primo senese a raccontare in diretta ad un’intera nazione i concitati momenti della corsa. Nel 1994, a distanza di sei anni dalla sua scomparsa, Maurizio Bianchini ha raccolto il testimone dello storico cronista. Nato a Siena, tartuchino come il suo predecessore, da più di vent’anni Bianchini commenta per la Rai le immagini della diretta da Piazza del Campo.
È Palio. Ricorda la sua prima volta in televisione in occasione della corsa?
“Il 1978 è l’anno in cui ho iniziato a lavorare per Canale 3. Non mi occupavo soltanto di Palio, facevamo un po’ di tutto. Erano gli anni in cui nasceva la televisione privata”.
Come veniva raccontato all’epoca il Palio?
“A quel tempo c’erano soltanto le riprese della Rai e la radiocronaca di Silvio Gigli. Noi iniziammo ad andare a parlare con i fantini, a svelare qualche retroscena. In quegli anni ero poco più di un ragazzo e ricordo ancora alcuni dei miei primi servizi: la tomba di Gaudenzia (il cavallo vittorioso del primo Palio trasmesso dalla Rai nel 1954, montato da Vittorino con il giubbetto dell’Onda, ndr), gli artigiani alle prese con la realizzazione del nerbo, le fasi della ‘bombatura’ delle bandiere”.
Che tipo di esperienza è stata?
“È stata una vera e propria palestra. Abbiamo avuto anche la fortuna di iniziare in un periodo in cui il pubblico era disposto a perdonarti anche qualche errore. Oggi invece non puoi permetterti di sbagliare niente, i telespettatori sono diventati molto esigenti. Dal punto di vista personale mi ero già occupato di Palio con una delle prime tesi universitarie su immagini, cinema e televisione (Bianchini si è laureato in Lettere all’Università di Siena, ndr). Diciamo che, quindi, c’erano tutti i presupposti per continuare su questa strada (sorride, ndr)”.
Quando è arrivata la chiamata della Rai?
“Nel 1994. Dopo Fraiese arrivò Emilio Ravel (nome d’arte di Emilio Raveggi, nato a Siena nel 1933, anch’egli giornalista ed autore televisivo, ndr), che ha realizzato trasmissioni davvero innovative e di grande spessore come TG7, Odeon e Colosseum. Inizialmente fu proprio Ravel ad occuparsi di Palio, e fui chiamato direttamente da lui per una collaborazione. Negli anni il rapporto con la Rai è proseguito e dall’anno scorso lavoro al fianco di Annalisa Bruchi, anche lei senese, giornalista estremamente competente”.
Che differenze ha trovato nell’ambiente del servizio pubblico rispetto a quello di un’emittente privata locale?
“Fin dall’inizio, quando ricoprivo il ruolo dell’esperto che rispondeva a delle domande, mi resi conto che parlare all’interno di una trasmissione rivolta ad un pubblico dislocato in tutta Italia era un qualcosa di molto diverso rispetto ad un programma locale, in cui ti seguono soltanto da Siena e provincia. Anche se naturalmente il lavoro è lo stesso devi avere una diversa impostazione, un atteggiamento differente, perché la maggior parte del pubblico non conosce ciò di cui stai parlando. Di conseguenza l’errore che si deve evitare è quello di dare per scontato gli elementi che per i senesi, invece, vengono dati per acquisiti. Si tratta di fare un lavoro più didascalico. Questa è stata la prima cosa che ho dovuto imparare”.
Quanto è difficile riuscire a spiegare ad un’intero Paese, all’interno degli stretti spazi televisivi, la storia e le tradizioni che si celano dietro al breve momento della corsa?
“Prima di tutto il telecronista stesso deve essere convinto dell’unicità dell’evento che sta raccontando. E poi deve cercare di utilizzare al meglio lo spazio che precede l’uscita dei cavalli dall’entrone, spiegando ai telespettatori a cosa stanno per assistere. È una finestra che permette al pubblico di affacciarsi su di una tradizione che va avanti da secoli, un mondo a parte, che appartiene alla cultura del popolo senese. Non si tratta di un evento sportivo oppure di una corsa di cavalli qualsiasi”.
E quando i cavalli entrano sul tufo?
“Dal quel momento in avanti si tratta esclusivamente di attenersi alla telecronaca della diretta. Come dico spesso, il Palio lo guardo alla televisione (ride, ndr). Il telecronista è costretto a seguire le immagini che la regia manda in onda sul monitor e che la gente da casa vedrà sul televisore”.
Che tipo di preparazione c’è dietro ad una telecronaca di un evento così particolare?
“Nei giorni precedenti preparo personalmente tutti i servizi che andranno in onda il giorno della diretta, insieme ad una troupe della Rai. Quest’anno ci siamo occupati del pensionario dei cavalli da Palio. In un’epoca in cui la pensione è una chimera per tantissimi giovani, i cavalli a Siena hanno diritto ad una ‘vecchiaia d’oro’ anche soltanto con una carriera all’attivo. Fra i cavalli che ho incontrato ce n’era uno, Lupo del Cimino, che dal 1999 è a riposo in questa fantastica struttura dopo aver recuperato da un infortunio. Oppure Altoprato, che si è ritirato dalle corse da una decina d’anni. E Zullina, infortunatasi nel 2001 quando correva per il Nicchio e che oggi, dopo aver partorito sette puledrini, fa la nonna a tempo pieno. E tutti sembravano stare proprio bene!”.
Come si riesce a coniugare l’essere telecronista ed allo stesso tempo contradaiolo durante i momenti della corsa?
“Nel momento in cui ho deciso di intraprendere il mestiere di cronista ho fatto una scelta di vita ed ho smesso di fare il contradaiolo. Non mi piace che mi si identifichi come tale nel momento in cui faccio una cronaca raccontando una storia che appartiene a tutti. E devo dire che questa decisione mi ha ripagato: oggi sono libero di andare dove voglio e di parlare con tutti i protagonisti della corsa senza il minimo timore di essere accusato di parzialità. Chiaramente, dentro di me, se vince la Tartuca sono contento, anche se non posso fare grandi festeggiamenti”.
La Tartuca è stata anche la contrada dello storico giornalista senese Silvio Gigli, celebre per le sue appassionate e memorabili cronache del Palio. Le fa piacere essere considerato il suo “erede” oppure sente il peso di questa responsabilità?
“Mio padre era suo amico fraterno e tutte le volte che tornava a Siena si fermava a casa nostra. Per me era come un parente, ci volevamo bene, mi stimava per il mio lavoro. Quello che ha fatto Silvio è irripetibile, anche perché sono cambiati i tempi. I commenti che faceva lui, oggi sarebbero impensabili. Il suo Palio durava in un certo senso un po’ di più: lavorando in radio non aveva i tempi stringenti della diretta televisiva ed aveva la possibilità di metabolizzare l’accaduto per poi raccontarlo attraverso le sue espressioni uniche. Non a caso venivano definite radiocronache ‘a colori’, tanto erano efficaci le espressioni con cui descriveva gli avvenimenti palieschi. La televisione però è qualcosa di diverso ed è difficile fare un raffronto diretto fra oggi e il passato. Ad ogni modo, per me è soltanto un grande onore essere paragonato a Silvio Gigli”.
Giulio Mecattini
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